Il dubbio si insinua a fatica nella nostra mente

Vere o no che siano, le informazioni che ci raggiungono restano attaccate alle nostre menti, influenzando comportamenti e scelte. E anche quando ci rendiamo conto che il loro contenuto è falso, può risultare molto difficile riuscire a modificarle.
A questo strano fenomeno – cioè le informazioni sbagliate che continuano a influenzarci anche quando razionalmente sappiamo che dovremmo dimenticarle – è dedicato un articolo di revisione scritto da un gruppo di ricercatori di università americane e australiane, guidato da Stephan Lewandowsky dell’University of Western Australia, e pubblicato da poco sulla rivista Psychological Science in the Public Interest.

Per poter riuscire a comprendere un’informazione, sia che la leggiamo sia che la ascoltiamo, in prima battuta dobbiamo considerarla vera, quindi, in qualche modo l’accettazione della veridicità è un prerequisito della comprensione. «Andare oltre questa accettazione automatica richiede una motivazione addizionale e risorse cognitive» spiegano gli autori dell’articolo. Perciò, normalmente il meccanismo del dubbio non si attiva. Quando, invece, la nostra mente rileva la presenza di alcune caratteristiche sospette nell’informazione ricevuta, l’attivazione cognitiva avviene. Accade, ad esempio, quando quella specifica informazione manca di coerenza interna.

Molte informazioni, ad esempio, si presentano più o meno esplicitamente sotto forma di storia, e le buone storie vengono ricordate molto facilmente. «Una volta che una storia coerente si è formata nella mente — dicono ancora i ricercatori — diventa fortemente resistente al cambiamento». E questo, a prescindere del suo grado di veridicità. Se, però, la storia è zoppicante o ha evidenti incoerenze interne, allora la mente di chi la riceve diventa critica e pronta a rigettarla.

Lo stesso capita quando l’informazione che arriva non è coerente con altre informazioni che una persona ha già: siccome diventa difficile mettere insieme i pezzi, la mente si trova a dover lavorare per capire se si possa conservare una congruenza, o se non sia il caso di rigettare la nuova informazione. Questo sistema sembrerebbe funzionare, però fa sì che informazioni sbagliate, ma coerenti con ciò di cui si è già convinti, passino tranquillamente e vadano a rafforzare le preesistenti convinzioni erronee.

Poi c’è la questione della credibilità della fonte da cui l’informazione proviene: è chiaro che più la fonte è ritenuta affidabile, meno si attivano i meccanismi di valutazione e di critica. Tuttavia, anche fonti inaffidabili possono influenzare le persone, soprattutto perché nel tempo può affermarsi il cosiddetto sleeper effect. Ovvero: si ricorda l’informazione, ma si dimentica la fonte dalla quale proveniva.
Infine, sebbene possa non piacere, conta anche il consenso sociale che si crea attorno a una notizia.

Così, se la maggioranza dubita, allora i meccanismi cognitivi di critica e valutazione scattano.
Questo fenomeno però è particolarmente complesso, perché in alcuni casi può diventare difficile capire quale sia realmente la maggioranza. Gli autori dell’articolo parlano di ignoranza pluralistica, cioè una divergenza tra la prevalenza reale di una certa credenza all’interno di una società e quello che le persone di quella stessa società pensano che gli altri credano in maggioranza. E per spiegarsi meglio ricorrono ad un caso emblematico.

«Per esempio, — precisano, infatti, i ricercatori — prima dell’invasione dell’Iraq del 2003, alle voci che invocavano l’azione militare unilaterale veniva dato risalto nei media americani. Cosicché la maggioranza dei cittadini che, al contrario, voleva il coinvolgimento realizzato assieme ad altre nazioni, sentiva di essere in minoranza».

A questo punto, si comprende come correggere una informazione sbagliata che abbia già raggiunto il suo obiettivo risulti difficilissimo. La ritrattazione il più delle volte non solo non annulla quanto si è già diffuso, ma può addirittura rinforzarlo, perché comunque deve richiamare la prima informazione data, che così viene riportata a galla e rievocata nella mente.

«Le persone, in genere, non amano che qualcuno dica loro che cosa pensare e come comportarsi, quindi sono portate a rigettare ritrattazioni particolarmente autoritarie» aggiungono Lewandowsky e i suoi collaboratori. La situazione è ben conosciuta nelle aule di tribunale: quando una prova già presentata viene indicata dal giudice come inammissibile, spesso il giudice si spende in spiegazioni legali dettagliate sul perché l’abbia respinta, ma tutto questo, paradossalmente, non fa che indurre la giuria a darle maggiore importanza.

«Finora sono stati identificati solo tre fattori in grado di aumentare l’efficacia di una ritrattazione: — dicono, infine, Lewandowsky e i suoi collaboratori — un avvertimento al momento della prima esposizione all’informazione sbagliata; la ripetizione della ritrattazione; correzioni che raccontano una storia alternativa che riempia il vuoto di coerenza altrimenti lasciato dalla ritrattazione».

Danilo Di Diodoro, 14 ottobre 2012

Fonte: Corriere Salute

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here