di Antonio Donno*
Quando, nel 1990, Peter Hopkirk pubblicò The Great Game (Il Grande Gioco, Adelphi, 2004) il centro dello scenario da lui analizzato con grande maestria era costituito dalle immense distese dell’Asia centrale, che oggi corrispondono al Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Afghanistan, terre nelle quali la Gran Bretagna, per tutto l’Ottocento, aveva tentato, spesso vanamente, di penetrare. Oggi la crisi dell’Afghanistan riporta quelle aree all’attenzione della politica internazionale. Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, dedica un significativo capitolo del suo nuovo libro, Il campo di battaglia. Perché il Grande Gioco passa per l’Italia (La nave di Teseo), proprio alle regioni nelle quali il Grande Gioco, studiato da Hopkirk, si svolse tra la Gran Bretagna e l’Impero zarista. Oggi, però, in attesa di sviluppi in quell’area nuovamente cruciale dal punto di vista strategico, il Grande Gioco si è spostato ad Occidente, nel Mediterraneo, tra attori che danno vita ad una nuova Guerra Fredda in un mare che sino a poco tempo fa era di esclusiva pertinenza politica e strategica dell’Occidente: Cina, Russia e Turchia, le tre maggiori autarchie del pianeta, si contendono l’egemonia nel Mediterraneo, per ora senza contrasti tra di loro. Per ora.
Questo dato di fatto percorre tutto il pregevole libro di Molinari, nel quale emerge l’attuale debolezza dei Paesi europei, che fino a ieri detenevano, insieme agli Stati Uniti, il monopolio del controllo strategico di quel mare. “L’Europa non può aspettare”, scrive Molinari all’inizio del suo libro: occorre dare vita ad una ricostruzione del Vecchio Continente, sferzato ancor oggi dal Covid-19 e da una crisi politica dell’Unione Europea e della stessa Nato che ha permesso alle autarchie di mettere solide basi nel Mediterraneo (di recente Macron ha affermato che la Nato oggi ha l’encefalogramma piatto). Se l’Italia è ancora al centro del tradizionale scontro tra Washington e Mosca, è pur vero che la nostra penisola è divenuta strategicamente fondamentale per gli interessi della stessa Russia, della Cina e della Turchia. Comunque, si sta evidenziando una nuova realtà: l’Italia potrebbe acquisire il ruolo di leadership nella nuova contesa che sta maturando nel Mediterraneo, con Mario Draghi alla testa del nostro governo. In realtà – è questo il nucleo centrale della prima parte del libro di Molinari – il ruolo centrale dell’Italia nel Mediterraneo è il frutto di diversi fattori: l’efficacia della lotta contro il Covid-19, la capacità di ridimensionare il populismo che imperversa in tutta l’Europa, anche se in modo diverso da Stato a Stato, l’impegno di rinforzare la storica alleanza con gli Stati Uniti, ponendosi all’avanguardia tra gli Stati europei, l’occasione che si prospetta al nostro Paese di divenire una società multietnica, nella quale “l’incontro fra italiani per nascita e italiani per scelta promette di renderci competitivi su ogni fronte”. Se questo accadrà, si può sperare che il Mediterraneo veda la presenza attiva di uno Stato democratico che, in connessione stretta con gli Stati Uniti, possa competere con le tre autarchie che ora controllano il mare nostrum.
La situazione attuale del Mediterraneo – scrive Molinari nella seconda parte del suo libro – vede nell’Italia un tassello decisivo per fronteggiare i progetti egemonici della Russia di Putin, della Cina di Xi e della Turchia di Erdoğan. La Libia è oggi il centro degli interessi di Russia e Turchia, perché è una base fondamentale da cui partire per il controllo del Mediterraneo, una base strategicamente cruciale posta di fronte all’Italia e a nord del Sahara. Nello stesso tempo, la nuova “Via della Seta”, che Pechino sta realizzando per giungere sulle sponde orientali del Mediterraneo, ha bisogno di punti certi di riferimento in Italia: da qui la pressione cinese sul nostro Paese per assicurarsi posizioni importanti in alcuni porti italiani. In sostanza, la presenza di Turchia e Russia in Libia e la crescente egemonia economica cinese in varie situazioni nel contesto mediterraneo convergono a indebolire le tradizionali posizioni della Nato e degli Stati Uniti nel Mediterraneo (Sicilia) con una sorta di accerchiamento strategico, a mettere in una condizione di ritardo politico l’Unione Europea e, in essa, l’Italia e laFrancia, i Paesi più interessati alle sorti del Mediterraneo, in particolare il nostro Paese, che le tre autarchie considerano “un tassello da indebolire al fine di rafforzarsi”, come scrive Molinari, il quale vede in una rinnovata unità di intenti fra Stati Uniti e Unione Europea l’unica, vera alternativa al possibile strapotere di Cina, Russia e Turchia nel Mediterraneo.
In questo contesto, Molinari allarga la sua analisi sulla nuova importanza strategica del deserto libico e del Fezzan, dove Turchia e Russia hanno consolidato posizioni militari importanti che consentono loro di tenere stretto l’accerchiamento della Libia e, nello stesso tempo, di programmare momenti di penetrazione verso sud, dove l’Unione Europea tenta di consolidare posizioni cruciali nel Sahel per contrastare l’avanzata di Ankara e Mosca. Le pagine dedicate molto opportunamente da Molinari alla situazione del Maghreb e della Libia meridionale allargano il discorso verso una prospettiva strategica che, partendo dal Mediterraneo, coinvolge tutta l’Africa settentrionale e le regioni ancora più a sud. La visione di Putin ed Erdoğan ha tutti i tratti di un progetto imperiale, neo-ottomano quello del turco, zarista quello del russo.
L’unico fatto che sembra interferire con i progetti delle tre autarchie è quello che è avvenuto di recente nel Medio Oriente, cioè l’avvicinamento di alcuni Paesi arabi sunniti a Israele con la firma degli Accordi di Abramo. Tali accordi, nel libro di Molinari, hanno un valore cruciale nella storia di uno scacchiere vastissimo che si estende dal Nordafrica al Golfo Persico, coinvolgendo direttamente lo scenario mediterraneo e quindi gli attori lì attivi. Gli Accordi di Abramo sono stati sottoscritti da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, quando Netanyahu e Trump guidavano rispettivamente lo Stato ebraico e gli Stati Uniti. Erdoğan ha condannato tali accordi e ha rafforzato, insieme all’Iran, il suo sostegno ad Hamas e a quelle fazioni che, all’interno del mondo palestinese, si stanno spostando ad accettare il ruolo centrale del dittatore turco alla guida dei Fratelli Musulmani, che sono nemici giurati delle monarchie del Golfo, nella lotta contro Israele. La Turchia di Erdoğan, dunque, ha un progetto egemonico che abbraccia il Mediterraneo e il cuore del Medio Oriente che si affaccia sul Golfo Persico. Un progetto talmente ambizioso da sfidare le possibilità economiche di Ankara, in considerazione del fatto che la Turchia, come la stessa Russia di Putin, soffre di una grave crisi economica che il sostegno finanziario del Qatar non potrà sussidiare all’infinito.
Il libro di Molinari, dunque, abbraccia una realtà vastissima che giunge sino alla crisi dell’Afghanistan, su cui si accentrano gli interessi della stessa Turchia, della Cina e della Russia. Dopo il ritiro degli Stati Uniti e della Nato dall’Asia Centrale, quella immensa regione sta divenendo un “santuario jihadista”, come scrive Molinari, in cui si è acceso lo scontro tra i talebani e la rinata Isis. Il direttore di Repubblica non risparmia critiche all’Amministrazione Biden, che oggi è costretta a “gestire le ferite profonde innescate dal rovinoso ritiro afghano nei rapporti con partner locali e alleati atlantici”, ritiro che ha lasciato campo aperto proprio alle tre autarchie che perseguono i loro interessi nel Mediterraneo. Ecco, dunque, che la crisi del Centro Asia non può essere separata da ciò che avviene nel cuore del Medio Oriente e nel Mediterraneo: è questo il merito del libro di Molinari: la fascia critica che si estende dal mare nostrum sino ai confini più occidentali della Cina pone l’Occidente in una posizione difensiva difficile da gestire se non si provvede alacremente a colmare il divario tra il mondo democratico (Stati Uniti, Unione Europea e Nato), da una parte, e la minaccia costituita da Cina, Turchia e Russia, la triade dittatoriale che sta emergendo pericolosamente al vertice del sistema politico internazionale, dall’altra. Nel discorso di insediamento di Franklin Delano Roosevelt nel gennaio del 1933 il nuovo Presidente americano disse: “Non dobbiamo temere niente altro che la paura stessa”. Quell’incitamento di Roosevelt è più che mai valido oggi e ha fatto bene Molinari a richiamarlo alla fine del suo eccellente lavoro.
*Professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali dell’Università di Lecce