Rupert Murdoch, il più grande editore del mondo, è stato messo sotto inchiesta dal parlamento britannico, a causa di intercettazioni illegali e altre scorrettezze commesse da qualche suo giornale; e durante le udienze sono emersi episodi sulla sua frequentazione di primi ministri e uomini di governo: pranzi, vacanze, visite riservate a Downing Street (sede del premier) passando per la porticina di servizio.
È così riemerso un argomento di antica data: i rapporti fra il potere e la stampa. Che gli uomini politici cerchino di tenersi buona la stampa (termine che include, ovviamente, la televisione) è comprensibile: hanno tutto da guadagnare se sono trattati bene. Più complesso è l’altro versante: perché tanti uomini del quarto potere, editori, direttori, articolisti, cercano rapporti stretti con gli uomini politici? Tema complesso: vediamo qualche aspetto.
Alla base della frequentazione fra potere e stampa può esserci, semplicemente, un rapporto di scambio: tu, uomo di potere, mi dài una notizia in più, io mi sdebito con un articolo benevolo. Eticamente criticabile, perché il giornalista dovrebbe essere imparziale, scrivere solo secondo scienza e coscienza.
Poi entra in gioco la vanità: può darsi che un giornalista, se è trattato con particolare riguardo da un primo ministro, ritenga di salire di grado nella scala sociale. E c’è infine la possibilità che un giornalista aspiri a influire sulle decisioni del governo: sorge allora il dubbio che sia un uomo politico mancato, che abbia sbagliato carriera.
Per esempio, Luigi Albertini, grande direttore del Corriere della Sera, coi suoi articoli spingeva perché l’Italia entrasse in guerra. Ci sono anche stati direttori, per la verità, assolutamente privi di ambizioni politiche. Giulio De Benedetti, direttore della Stampa, non andava mai a Roma. Una volta, perché sollecitato, fece visita a Moro: ma, seduto davanti a lui, non sapeva che dirgli, e se ne andò dopo un quarto d’ora.
Piero Ottone, 11 maggio 2012
Fonte: Il Venerdì