«È una violazione grave del codice di comportamento, non è quanto ci aspettiamo dagli uomini impiegati al fronte». Questa dichiarazione e un’inchiesta disciplinare costituiscono la prima reazione degli alti comandi. Ma le 18 fotografie diffuse dal Los Angeles Times, dopo averle ricevute da un soldato di stanza in Afghanistan, hanno innescato un dibattito che scuote gli Usa: mostrano gli uomini di uno stesso plotone (già identificati) che in due occasioni, nel 2010, si sono fatti fotografare accanto ai resti di alcuni attentatori suicidi.
Le pose sono nel migliore dei casi insultanti, con i soldati che sghignazzano intorno ai resti dei terroristi. Nei casi peggiori sono ripugnanti, con gli stessi soldati che profanano i resti dei nemici, a volte utilizzando parti dei loro corpi distrutti per “scherzi” che definire macabri è poco.
È facile capire perché i cittadini americani siano pronti a discutere. Difficile attendersi da soldati induriti dall’addestramento, costretti a combattere in un Paese ostile o comunque poco amico e stressati dal confronto con un nemico tenace e prontissimo a morire pur di uccidere, un comportamento ricco di fair play. E non possiamo dimenticare che il plotone incriminato appartiene al primo battaglione del 508° Reggimento di fanteria paracadutista che ha perso 10 uomini e 4 interpreti in diversi attacchi suicidi.
Ma tre indizi fanno una prova, e solo nel 2012 abbiamo avuto tre casi clamorosi: in gennaio comparve su YouTube un video di soldati che urinavano sui cadaveri di guerriglieri afghani; in marzo, il sergente Robert Bales trucidò 17 afghani in un raid in due villaggi; e adesso le prodezze di questo plotone. Per non citare il rogo dei Corani in febbraio. Un errore, non una provocazione, che comunque innescò disordini in cui morirono 30 persone.
L’America dibatte e si divide perché nota che sono i suoi soldati a essere più spesso coinvolti in episodi di questo genere, e quindi d’istinto capisce che c’è un problema specifico. Per dir così, americano.
Il cittadino comune lo “sente”, i vertici militari lo pensano. Qualche mese fa è stato pubblicato un rapporto, prima secretato, dello scienziato del comportamento Jeffrey Bordin che, proprio su incarico dell’esercito Usa, ha studiato sul terreno il pessimo stato dei rapporti tra truppe e afghani. Perché c’è anche un’altra faccia in questa medaglia: Bordin ha documentato la morte violenta di 58 soldati occidentali per mano di soldati afghani in 26 diversi attacchi. Il più agghiacciante si è verificato il 27 aprile 2011, quando nell’aeroporto di Kabul il colonnello Ahmed Gul ha ucciso 8 ufficiali americani e un contractor, per poi scrivere «Allah è grande» su un muro con il loro sangue e infine suicidarsi.
Non a caso il rapporto di Bordin si intitola «Una crisi di fiducia e di incompatibilità culturale». Se il tema della “fiducia” forse segnala un deterioramento dei rapporti dal 2001 a oggi, quello della “incompatibilità” certo rimanda a un dialogo e a un’intesa che, evidentemente, non sono mai scattati. Gli afghani non sono mai stati davvero considerati come fratelli liberati e gli americani non hanno mai goduto della gratitudine che si riserva ai liberatori. La cultura afghana non è mai stata trattata da pari, quella americana non è mai stata considerata un modello magari non da replicare ma almeno da studiare.
Undici anni dopo la spedizione contro i taleban, è tardi per sperare di rovesciare la situazione. Ma non è tardi per introdurre qualche correttivo. Perché l’Afghanistan di domani avrà un governo assistito dall’Occidente, un esercito addestrato dalle truppe Nato e Usa e un’aspirazione alla democrazia che, storicamente, è tutta “nostra”. E abbiamo troppo bisogno che funzioni.
Fulvio Scaglione, 19 aprile 2012
Fonte: Avvenire