di Leonardo Tricarico*
Da oltre un anno alcune associazioni tra militari, autoproclamatesi sindacati, con uscite pubbliche sistematicamente diffuse sui social, insistono nel forzare la mano all’amministrazione della Difesa e al mondo della politica in generale per veder riconosciuti i propri diritti a esercitare attività di carattere sindacale.
Numerose sono state le circostanze in cui le suddette associazioni, di giorno in giorno più numerose e agguerrite, hanno colto l’occasione per esprimersi esplicitamente con il linguaggio e il piglio di veri e propri sindacati, su materie per le quali è lecito esprimere più di un dubbio sulla loro titolarità ad avere alcun tipo di ruolo.
Ordinamento, impiego del personale, disciplina, trasferimenti di sede, ammodernamento dei sistemi d’arma sono alcuni ambiti nei quali sono state fatte valutazioni e dichiarazioni di questa o quella sedicente sigla sindacale militare.
Considerando che stiamo parlando di militari, il limite del lecito sembra già abbondantemente varcato tanto che qualcuno già nutre dubbi che la deriva verso una sindacalizzazione scomposta del mondo militare possa essere arrestata; proprio per questo è necessaria una riflessione serena ma ferma sul punto, una riflessione non limitatata alle parti in causa ma che coinvolga, per le prospettive cruciali per la tenuta del sistema, il mondo della politica in senso più lato e l’opinione pubblica.
I fatti nudi e crudi: il 20 giugno 2018 la Gazzetta Ufficiale pubblica la sentenza 120/2018 della Corte Costituzionale con la quale si stabilisce che: “i militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge”.
Dice inoltre la Corte: “La corretta attuazione della disciplina costituzionale della materia esige peraltro che il riconoscimento ai militari del diritto di associazione sindacale sia accompagnato dalla previsione di condizioni e limiti al suo esercizio”. E inoltre: “Con riguardo agli ulteriori limiti, è invece indispensabile una specifica disciplina legislativa, in attesa della quale il vuoto normativo può essere colmato con la disciplina dettata per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare con le disposizioni (art 1478 , comma 7, cod. ord. militare) che escludono dalla loro competenza ‘le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico operativo, il rapporto gerarchico funzionale e l’impiego del personale’, e che costituiscono, allo stato, adeguata garanzia dei valori e degli interessi richiamati”.
La Corte Costituzionale quindi vincola in maniera netta e inequivocabile la fruizione del diritto di costituire associazioni a carattere sindacale al rispetto di una legge, in attesa della quale deve vigere il divieto a esercitare qualsiasi funzione nelle specifiche materie indicate in sentenza.
I sedicenti sindacati militari invece, in un ritmo di crescente assertività, danno quotidiana evidenza di sostanziale noncuranza delle condizionalità fissate dalla Corte, non trascurando occasione per addentrarsi in materie non consentite dalla sentenza 120/2018 arrivando nelle ultime settimane a forme di protesta ancor più fuori dalla norma, quali la manifestazione di fronte al Parlamento dello scorso 7 ottobre e quella prevista per il prossimo 14 ottobre.
Le Forze Armate in passato hanno attraversato momenti simili, vedansi il processo di cosiddetta democratizzazione di inizi anni ’70 o la smilitarizzazione dei controllori di volo; se allora ne sono uscite fuori con qualche ammaccatura ora il problema è più complesso e insidioso; ora sono in ballo come non mai la tenuta dello strumento e la solidità del vincolo gerarchico, proprio due delle funzioni che la Corte aveva intravisto a rischio.
Altra contingenza negativa del momento, la debolezza della classe politica, segnatamente quella dei neofiti di questo mondo, quelli che nella migliore delle ipotesi stanno facendo esperienza sulla pelle degli italiani.
La Repubblica del 10 gennaio 2019 così apriva un pezzo sull’argomento: “Una rivoluzione in caserma. Il Ministro Elisabetta Trenta ha riconosciuto il primo sindacato dei militari. Qualcosa di mai visto nel nostro ordinamento… destinato a cambiare radicalmente la vita delle forze armate”.
È proprio questo l’atteggiamento della politica che va accuratamente evitato, quello che, alimentando le speranze, porta poi i militari in piazza a forzare la mano al Parlamento mentre esso sta legiferando sulla norma che regolerà la loro condizione.
Il bicchiere mezzo pieno è che ora abbiamo un vero Ministro della Difesa, un ministro che ha preso in breve tempo piena consapevolezza dell’importanza dello strumento militare italiano in tutte le sue spendibilità, internazionale, domestica, tecnologica, industriale e di sicurezza.
Egli non permetterà di certo che la sindacalizzazione delle forze armate abbia un destino simile al taglio delle poltrone, al reddito di cittadinanza o alle pensioni d’oro. È una delle poche cose che ancora funziona, di cui menar vanto a livello internazionale ed ai tavoli negoziali e che non ci vuol nulla a buttare alle ortiche.
È lecito nutrire uguale confidenza che i vertici militari seguano lo sviluppo legislativo e regolamentare del processo in corso con il necessario rigore, non tollerando i comportamenti inaccettabili -militari che tentano di intimidire il Parlamento impegnato nelle sue funzioni più alte-, e valutando i comportamenti dei singoli alla luce del quadro normativo vigente.
E nell’auspicio che il ciclo si chiuda con una buona legge il cui iter non venga ulteriormente condizionato da interferenze improprie di chicchessia.
*Generale e presidente della Fondazione Icsa
Fonte: www.huffingtonpost.it