di Enzo Fortunato*

Scarnificati. È forse quello che stiamo vivendo. Una realtà senza carne, senza il contatto umano. Tutto in dissolvenza. La risposta di senso e di significato la possiamo trovare nel corpo di Cristo scarnificato sulla croce.

E pensare che Cicerone invitava i romani nel suo Pro Rabirio ad allontanare dal cuore, dalla mente, dallo sguardo e dai luoghi il simbolo più importante dei cristiani: «il nome stesso della croce stia lontano non solo dalla persona dei cittadini romani, bensì anche dal loro pensiero, dai loro occhi, dal loro orecchio… La sola menzione è indegna del cittadino romano e dell’uomo libero». È stridente il contrasto ma forse la mentalità in molti di noi è simile. Vorremmo allontanarla.

Oggi quella croce diventa lo specchio in cui si riflettono non solo i malati di Coronavirus, ma anche l’intera umanità. Sono soli come Gesù nel Getsemani, soffrono nel fisico come Gesù sulla sua pelle, sentono l’abbandono di Dio, non confortati dalla presenza di un sacerdote e condividono anche la stessa morte per asfissia. Ma la croce non è solo lo specchio di chi muore, è anche lo specchio di una umanità che si sente scarnificata.

Ha ragione Marco Franzoso nel suo romanzo Le parole lo sanno, stiamo vivendo una condivisione totale. In questa nuova collettività mediatica, fatta di streaming, fatta di dirette, fatta di chat, fatta di immagini che si dissolvono, senza pelle. Nuotiamo tra telefonate e Skype call, videoconferenze senza stringerci le mani, senza una pacca sulla spalla, siamo soli in compagnia di suoni. Questa collettività, questa scarnificazione, può fare emergere un nuovo “Io”.

Tutti diciamo: non sarà più come prima. Ed è vero. Ma non sappiamo ancora se ne usciremo migliori o peggiori. Se affronteremo la nuova vita con prossimità o con aggressività. La scarnificazione sulla croce ci dice che il dopo, in cielo e in terra, è migliore. Per riprendere le parole di papa Bergoglio, il futuro per essere migliore ha bisogno di tre spezie: l’ospitalità, la fraternità e la condivisione.

È quello che Gesù vive con i discepoli dopo la Resurrezione, liberandoli dalla paura e donando loro la pace, animata da questi tre atteggiamenti. Credo che queste tre parole possano rappresentare la bussola di una nuova umanità, che ha attraversato la scarnificazione del Venerdì Santo. Non dovremmo però farci mancare il coraggio di tornare in cantina e salire sul campanile.

Ce lo ricorda l’etimologia della parola “cella”. Quella che stiamo vivendo in questo lungo periodo, che richiama il luogo sotterraneo della cantina e il luogo alto del campanile, dove si sta consumando questa umanità dolente. Ci viene in aiuto Francesco d’Assisi (nella foto, l’affresco di Giotto San Francesco riceve le stimmate) nella moltitudine dei tanti pensieri che ci affliggono nella nostra “stanza quotidiana” che è diventata la nostra cella.

Francesco d’Assisi nel momento più difficile della sua vita si pone due interrogativi: «chi sei tu o Dio? E chi sono io?». Due domande che ci portano a cogliere le energie profonde che abbiamo nella nostra “cantina interiore” e a salire sul “campanile”, sulle altezze di Dio e del suo amore, per dare senso e significato a quello che viviamo.

È questa la rivoluzione, prima ancora che economica e sociale, che comunque ci attende. Che potrà animare quella economica, quella sociale, quella imprenditoriale e casalinga finanche quella ecclesiale. Sarà una Pasqua diversa ma che attende la trasfigurazione. Scarnificati e trasfigurati.

* Direttore Sala Stampa Custodia Generale Sacro Convento di Assisi

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