di Elena Loewenthal

Nel mondo ebraico quando qualcuno non c’è più, evocandone il nome si usa sempre la formula zikhronò leberakhah, che significa «il suo ricordo sia di benedizione». Che questo triste auspicio sia davvero tale per la memoria di Piero Terracina, nato a Roma il 12 novembre del 1928 e mancato ieri nella sua città. Che il suo ricordo sia per tutti noi una benedizione di memoria e la consapevolezza di quel che è stato.

Piero Terracina era scampato con tutta la famiglia al terribile rastrellamento del ghetto, il 16 ottobre del 1943. Si erano nascosti in una cantina, e avevano vissuto in clandestinità fino al 7 aprile dell’anno successivo, la sera della Pasqua ebraica, quando un delatore li tradì. Padre, madre, fratelli, sorella, zio e nonno furono arrestati insieme a Piero. Il percorso di morte era sempre lo stesso: prima da Regina Coeli a Fossoli. «I prigionieri non lavoravano», raccontava, «ma imparai come dovevo morire: vidi un ufficiale sparare un colpo in testa a un deportato che conoscevo. Fu la prima morte che vidi nella mia vita». Come quel personaggio femminile in un racconto di Amos Oz che racconta che quando le torna in mente la madre morta laggiù vuole soltanto scappare dal mondo perché sa che non esiste altra alternativa che fra una morte e l’altra.

Piero e la sua famiglia rimangono a Fossoli un mese, il 17 maggio vengono caricati su un vagone piombato e deportati ad Auschwitz. Sono in sessantaquattro, nel vagone. «I lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, e sarebbe bastato uno sguardo di pietà». Le porte del vagone non vengono mai aperte. Mai per tutto il viaggio. All’arrivo ad Auschwitz, cani, bastoni, botte, selezioni. Forse sua madre capisce: «Mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse: andate». Quando esce dalla «sauna»— spogliato, rasato, tatuato — Piero chiede a un compagno dove sono i suoi genitori, e lui gli indica il fumo che sale dalla ciminiera dei forni crematori. «Sono già usciti di lì» risponde.

Il 27 gennaio del 1945 si aprono i cancelli di Auschwitz. Piero Terracina pesa 38 kg, è solo al mondo. Gli ci vorranno anni per riprendersi fisicamente, per riprendere ad avere un poco di fiducia nella vita. Torna a Roma, diventa dirigente d’azienda. Comincia a testimoniare molto tempo dopo il suo ritorno, negli anni Ottanta. Lo fa e sempre lo farà con pacatezza e lucidità. Si fa ascoltare nelle scuole, in istituzioni pubbliche private, nei viaggi della memoria ad Auschwitz, in televisione. Senza mai alzare la voce. Raccontando sul filo di un ricordo nitido, come se tutto fosse appena successo.

«Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subìto nell’inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l’odio antisemita» ha detto Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica romana. Ad Auschwitz Pietro aveva fatto amicizia con Sami Modiano, di due anni più giovane. Entrambi sono diventati voci necessarie, battaglie viventi contro l’incubo che rubava notti insonni a Primo Levi, ancora decenni dopo: quello di raccontare e non essere creduti.

Oggigiorno sembra che quell’incubo talvolta si avveri, prenda corpo nelle urla sui social network, in nostalgie scandalose e pericolose approssimazioni storiche. Come se non fosse successo quello che è successo. Piero Terracina era rimasto fra gli ultimi testimoni italiani della Shoah. Chissà come faremo, d’ora in poi, senza la sua voce. Forse, per onorare la memoria e farne benedizione, si può cominciare riflettendo sullo slancio di umana generosità che ha significato raccontare, per lui e gli altri testimoni. Su quanto deve essere stato doloroso, difficile, terribile, evocare giorno dopo giorno quel passato, per consegnarlo alle generazioni successive. Che sacrificio dev’essere stato, ogni volta, tornare laggiù, per scacciar via lo spettro che rubava le notti a Primo Levi e con voce pacata, lucida, vera, dire a tutti noi che ascoltavamo e continueremo ad ascoltare: «Questo è stato».

Fonte: La Stampa, 9 dicembre 2019

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