di Maurizio Molinari

La decisione delle autorità di Hong Kong di sospendere la controversa legge sull’estradizione in Cina testimonia la vulnerabilità del potere di Pechino alle proteste di piazza. A trent’anni di distanza dalla repressione di Piazza Tienanmen, quando il regime comunista usò i tank per schiacciare nel sangue le speranze di una perestroijka cinese, la mobilitazione dei giovani di Hong Kong ha obbligato Pechino a fare marcia indietro.

Il consiglio di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, voleva approvare il regolamento che rende possibile le estradizioni in Cina consentendo in questa maniera di avere uno strumento legale per trasferire nelle prigioni della Repubblica popolare qualsiasi tipo di «criminale», inclusi ovviamente quelli che in realtà sono degli oppositori politici. Il punto è che nessun Paese democratico ha un trattato di estradizione con Pechino perché il suo sistema della giustizia si distingue per violazioni sistematiche dei diritti umani, gestione diretta da parte della polizia e un’agghiacciante sequenza di condanne a morte.

Per la Cina di Xi Jinping che ha l’ambizione di guidare la globalizzazione dei commerci, di sfidare gli Stati Uniti nella corsa all’intelligenza artificiale e di realizzare una spettacolare «Via della Seta» a cavallo dell’Eurasia, il sistema giudiziario è un tallone d’Achille che ricorda a qualsiasi Paese democratico i gravi rischi che vi incorrono i propri cittadini per il solo fatto di esprimere un’opinione non gradita o di visitare un sito web non permesso.

Sono queste le ragioni che hanno spinto i giovani di Hong Kong a scendere in piazza contro la norma sull’estrazione in Cina, riuscendo a paralizzare l’ex colonia britannica con una marea umana che ha superato il milione di anime. Se cinque anni fa la «Rivolta degli ombrelli» aveva svelato al mondo che Hong Kong non accettava la repressione poliziesca, la marcia indietro di Carrie Lam nasce dalla capacità dei suoi abitanti di mettere a nudo la vulnerabilità del sistema cinese: troppo rigido per gestire qualsiasi tipo di crisi. Davanti alla scelta fra la repressione e la tregua, Pechino ha così ordinato a Carrie Lam di spegnere la miccia di un incendio dagli esiti imprevedibili.

Se Hong Kong è diventato il ventre molle del gigante cinese è per due motivi convergenti: da un lato è protetta dalla formula istituzionale «Un Paese, due sistemi» coniata da Deng Xiaoping per consentire alla Cina comunista di assorbire nel 1997 l’ex colonia britannica divenuta una delle maggiori piazze finanziarie del Pianeta, e dall’altra vede la sua popolazione identificarsi in maniera crescente con la definizione di « hongkonghesi» mentre quella di «cinesi» è in drammatica diminuzione.

Ciò significa che gli imponenti sforzi economici, legali e infrastrutturali profusi da Pechino negli ultimi venti anni per integrare sempre più Hong Kong nel proprio territorio continentale non sono riusciti a creare le premesse per l’annessione culturale e politica. In altre parole, la formula «Un Paese, due sistemi» ha portato ad un rafforzamento – non ad un indebolimento – del modello di Hong Kong, trasformandosi in un boomerang per Pechino obbligato ora a fare i conti con un’autonomia talmente radicata da riuscire a respingere i diktat del partito comunista.

Il rischio maggiore per Xi è che le altre regioni autonome – a cominciare dal Tibet e dal Xinjiang – traggano forza da quanto sta avvenendo a Hong Kong, maturando la convinzione che il regime può essere sfidato. Saranno le prossime settimane a dirci come Carrie Lam – espressione diretta del potere cinese – gestirà un’opposizione che ora la incalza, arrivando a chiederle senza mezzi termini di azzerare del tutto la norma contestata, ma ciò che più conta è come Xi affronterà le conseguenze di un passo falso che incrina l’immagine globale di Pechino. In attesa di conoscere le mosse del potere cinese c’è però una considerazione da fare sulle democrazie occidentali: troppo distratte dalle proprie crisi interne, hanno esitato ad esprimersi a sostegno della rivolta di Hong Kong. Dimenticando che la difesa dei diritti umani è ciò  che più le distingue dalle dittature.

Fonte: La Stampa, 16 giugno 2019

Foto: Time

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