di Marco Mondini

Ecco perché oggi “unità nazionale” e “Forze armate” tornano a occupare insieme un posto nell’identità collettiva

«Lo dobbiamo alla nostra storia». È il 4 novembre 2022 e Sergio Mattarella si trova a Bari per commemorare la fine del primo conflitto mondiale. Da mesi la guerra è tornata in Europa e nel cuore del continente si combatte e si muore. L’invasione russa dell’Ucraina ha infranto il lungo sogno di una pace scontata.

Mattarella parla ai militari, che chiama garanti della sicurezza, parla a un’Italia che deve stringersi con riconoscenza attorno alle proprie Forze armate, parla di scenari internazionali difficili, di unità e amor di Patria. Sono le parole di un capo di Stato che si rivolge alla sua comunità in un momento di incertezza. Poi, appena prima di concludere, il discorso diventa “un auspicio”. Che il 4 novembre venga definito come un appuntamento solenne per la Repubblica: «Lo dobbiamo alla nostra storia», appunto.

Due anni dopo, quell’auspicio è diventato legge e il 4 novembre 2024 sarà la prima, formalmente riconosciuta, Giornata dell’unità nazionale e delle Forze armate. Solennità civile e non giorno festivo. Insomma, celebrazione di secondo rango. Ma, in ogni caso, l’anniversario della Vittoria nel 1918 rientra a pieno titolo nel calendario civile nazionale dopo una bizzarra latitanza. Perché il 4 novembre è allo stesso tempo una delle celebrazioni più tradizionali dello Stato unitario e una delle più bistrattate.

In linea teorica dovrebbe rappresentare l’occasione per riunire gli italiani attorno a una delle poche memorie condivise della propria storia. Sì, la sconfitta dell’Austria-Ungheria venne ottenuta al costo di seicentomila vite spezzate. E sì, l’intervento venne deciso contro la volontà della maggioranza della popolazione e della rappresentanza parlamentare. Ma questo non toglie che, almeno per una volta, quella guerra gli italiani non solo l’abbiano vinta, ma l’abbiano anche combattuta dalla parte giusta.

Molti di coloro che l’avevano voluta, i Calamandrei, i Lussu, i Battisti, credevano sinceramente all’idea che battersi contro gli Imperi Centrali significasse anche costruire un’Italia e un’Europa più libere. Gli interventisti non erano tutti una banda di nazionalisti sanguinari.

Il fascismo pervertì il significato di quella vittoria. Per Mussolini, il 4 novembre era l’apoteosi di una nuova nazione guerriera e imperiale, una comunità di sangue da cui andavano espulsi tutti coloro che non credevano e obbedivano (a lui) e che avrebbe conquistato il suo posto nel mondo con le armi. Non sorprende che, dopo il 1945, i governi repubblicani, ansiosi di smarcarsi dai toni guerrafondai del regime, abbiano derubricato il roboante “anniversario della Vittoria” a più innocuo “giorno dell’unità nazionale”. Per poi degradarlo a semplice ricorrenza volante, la prima domenica del mese.

Ci si può chiedere, allora, perché oggi “unità nazionale” e “Forze armate” tornino a occupare insieme un posto nell’identità collettiva. Una prima risposta può essere: perché era necessario arginare la balcanizzazione delle celebrazioni nazionali. Le giornate “in ricordo di” si sono moltiplicate (una trentina, escludendo le feste principali), finendo per creare altrettante tribù di una memoria sempre più frammentata.

Nel bene e nel male, invece, la fine del conflitto oltre cento anni fa ha segnato una storia comune per tutti gli italiani, o almeno per una buona parte di loro. Un passato da recuperare come fondamento di un patriottismo repubblicano, e questo può essere un altro modo di vedere la questione.

Commemorare guerra e vittoria, bandiere e Forze armate, significa anche sottrarle a un arsenale retorico modello X Mas. Quello di una nuova destra nazionalista che tanto volentieri amerebbe intestarsi il 4 novembre, e di certo non per leggerlo come tappa di un cammino che ha portato all’Italia democratica.

Fonte: la Repubblica

Foto: Difesa

 

 

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