di Susanna Nirenstein

L’autore analizza nel libro che cosa è cambiato fuori e dentro lo Stato ebraico dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre del 2023

Sono 174 pagine implacabili nate dall’urgenza quelle del filosofo francese Bernard-Henri Lévy. Solitudine d’Israele, l’ultimo saggio pubblicato dalla Nave di Teseo (traduzione di Raffaella Patriarca) da oggi in libreria, investe l’intero pianeta colpevole del negazionismo quasi universale che ha accolto il ritorno del male assoluto esploso il 7 ottobre. L’8 ottobre 2023 Lévy era già volato là, tra le case di Sderot, una delle cittadine ai confini di Gaza colpite dalla furia di Hamas. La desolazione, i cadaveri per strada, e poi, tra i kibbutz, nel bastione del sionismo laico, liberale, pacifista, in mezzo alle case disossate tacevano persino gli uccelli, e i sopravvissuti, «di nuovo i sopravvissuti», raccontavano i barbari spuntati dal nulla, la loro ferocia muta, e poi la raccolta dei morti violati, a volte decapitati, altre fatti a pezzi, o ancora carbonizzati, «carni intraviste e indistinte, odore denso». Ma non è per fare la cronaca che Bernard-Henri Lévy è in Israele. Con il «cuore ghiacciato» capisce che si sono appena verificati una «deflagrazione», uno «spostamento d’aria che non assomigliano a niente di conosciuto e cambieranno il corso delle nostre vite». Un Evento. Come gli aerei lanciati sulle Torri Gemelle, l’invasione russa dell’Ucraina che infrange tutte le regole dell’ordine internazionale dopo la disfatta nel nazismo. Un Evento, più di 1200 morti, 250 ostaggi, tutto diffuso in tempo reale sui social in cui si esultava di aver sgozzato degli ebrei. Una “operazione” enigmatica, imprevedibile, come lo sterminio nazista, «una parte impenetrabile di ombra»: e se servizi, esercito, governo israeliano hanno fallito a capire che stava per succedere, sottolinea Lévy, bisogna ricordare che fino a pochi giorni prima si vedeva Yahya Sinwar amministrare Gaza, negoziare alleggerimenti dell’embargo, ricevere i milioni del Qatar e lasciare che costruissero spiagge, alberghi di lusso, università, ristoranti, centri di equitazione… Inutile cercare il colpevole della mancata previsione, la verità è più terrificante, sono parametri feroci tanto lontani dalla nostra ottica che non li riconosciamo. «Non hanno un passato ma hanno un futuro» perché questi criminali hanno rovesciato il tavolo, riconfigurato il paesaggio in cui vivremo. E l’hanno fatto producendo tre scosse. Se la prosa di Lévy è affascinante, cerchiamo di attenerci ai punti principali. Ne sacrificheremo tantissimi. La prima scossa colpisce l’anima ebraica, intrappolandola tra due obiettivi contraddittori, eliminare Hamas e liberare gli ostaggi (trappola che in questi ultimi giorni si è fatta incandescente: «Se ti avvicini ai sequestrati li ammazzo» è diventata una realtà: a sei giovani israeliani nei tunnel di Hamas hanno sparato alla nuca una settimana fa) quando «il riscatto dei prigionieri» per gli ebrei è la prescrizione più santa. Facendo balenare a ogni ebreo in Israele e nel mondo come la terra rifugio non sia più tale, che «non c’è posto al mondo in cui gli ebrei siano al sicuro». Questo è il messaggio. La seconda scossa è universale. Resuscita il male che l’uomo può fare all’uomo, il male radicale, una donna violentata da cinque uomini e finita col coltello, un’altra, stuprata, e trafitta di chiodi, un’altra ancora con i seni recisi, i neonati bruciati. Un pogrom mostruoso avido di carne umana, di ebrei. La terza scossa è l’ordine mondiale: Iran, Russia, Cina, Turchia, Jihad mondiale, i pianeti neri che si allineano non solo sul fronte ucraino, ma contro Israele, con Hamas, la spada, esaltati dalla guerra contro le democrazie. Lévy entra in profondità in questo quadro. Ma sono altri eventi che escono vibranti dalle sue considerazioni. Primo, il negazionismo che pochi giorni dopo, nonostante le cronache, le immagini, le testimonianze dei sopravvissuti, ha avvolto il 7 ottobre, “propaganda” al servizio del “genocidio” dicevano. Le donne non volevano le israeliane alle loro manifestazioni. E i 240 ostaggi presto fu come non esistessero, la Croce Rossa non se ne interessa tuttora, le Ong tanto meno, anzi peggio. Gli esempi sono ricordati. E qui siamo a un’altra caratteristica fondamentale di questo conflitto alla rovescia, ricorda Lévy, i «sì, ma», dopo aver contestato le accuse di occupazione (Guterres non sapeva che Gaza era stata svuotata da ogni presenza ebraica nel 2005?), o l’apartheid (qualcuno può dire al mondo che due milioni di cittadini israeliani sono arabi e fanno anche i sindaci, i giudici, i deputati, i medici, i prof universitari?). Poi viene la parte che sicuramente farà più discutere, quella destinata a suscitare critiche e obiezioni. È la richiesta di “cessate il fuoco” di cui Israele è stato oggetto fin da subito: qualcuno ha mai cercato di fermare gli Usa in Afghanistan dopo l’11 settembre? Ricorda Lévy, qualcuno ha chiesto alla Francia di non partecipare all’assedio di Mosul dopo il Bataclan? Anzi, hanno goduto di ampie alleanze. Qualcuno ha chiamato Al Qaeda o l’Isis a un tavolo delle trattative? Eppure… E dopo aver cassato, argomentando, ogni accusa di colonialismo, e l’idea che non si possa battere l’irredentismo palestinese («i tedeschi, dopo la sconfitta di Hitler, scelsero la democrazia»), in quanto al «genocidio», al«massacro», Lévy, che pure, va ricordato, è da sempre un uomo di sinistra, ha parole definitive: Israele non ha voluto questa guerra, spiega, che ora deve vincere, la responsabilità delle decine di migliaia di morti palestinesi non è di Israele (si è mai visto, scrive sempre Lévy, comandi militari avvertire dei bombardamenti con volantini, telefonate, messaggi come fa Tsahal prima di colpire?) ma di chi ha usato, usa, i civili, i bambini, come scudi umani volendo il maggior numero di vittime, di martiri, da sparare in faccia al mondo. Lévy è pieno di paure per il futuro. «Amo questo popolo bloccato sulla minuscola striscia di terra» conclude, «un popolo pronto alla pace quando lo saranno gli altri», con tanto di due Stati.

Fonte: la Repubblica

 

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