di Roberto Arditti

Il generale di corpo d’armata Giovanni Maria Iannucci è il Comandante Operativo di Vertice Interforze (Covi). La sua carriera, vanta esperienze di alto profilo, tra cui il comando della Nato Mission Iraq (2022-2023), la guida della Brigata Paracadutisti «Folgore» (2015-2016) e la partecipazione a missioni internazionali come l’Operazione «Unosom-Ibis» in Somalia.

Generale Iannucci, a tre anni dall’inizio del conflitto in Ucraina, cosa stiamo imparando da questa guerra? Quali insegnamenti entreranno stabilmente nelle metodologie operative e di addestramento delle forze armate?

«Stiamo imparando molto, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, il conflitto non ci ha sorpreso: nei mesi precedenti avevamo previsto l’eventualità di un’escalation. Quello che non avevamo anticipato era la durata e l’intensità del confronto. La guerra in Ucraina ci ha restituito un’immagine “ibrida” del conflitto: da un lato le trincee, che ricordano la Prima guerra mondiale; dall’altro, l’uso massiccio e integrato dei droni, impiegati non solo in ambito aereo ma anche terrestre e navale. È un ritorno della guerra nel cuore dell’Europa, che ha colpito anche psicologicamente. Il termine “guerra” è tornato con forza nel vocabolario comune, anche militare».

Dal punto di vista operativo e sistemico, quali trasformazioni avete osservato?

«Abbiamo reimparato l’importanza della logistica, della sostenibilità, dell’industria della difesa come parte integrante del sistema militare. La capacità di rigenerare mezzi e risorse è tanto strategica quanto il possesso iniziale degli strumenti. Stiamo lavorando per rendere l’addestramento più realistico, più sfidante, e più integrato anche con i decisori politici. Perché le guerre moderne si combattono anche con le scelte strategiche fatte in tempo di pace. E poi c’è un dominio cruciale, spesso sottovalutato: quello informativo. Il conflitto, a livello cognitivo, era iniziato mesi prima con disinformazione, propaganda, manipolazione. E continuerà anche oltre il cessate il fuoco».

L’impiego dei droni è ormai strutturale. Questo impone un ripensamento radicale anche dell’organizzazione militare.

«Sì, è una rivoluzione. Le forze armate devono essere strumenti più rapidi, più flessibili, più capaci di reagire. Ma questo significa anche che l’industria deve produrre più in fretta. Le guerre non aspettano. Un esempio: per far fronte a un attacco missilistico durato poche ore Israele ha dovuto usare la produzione di missili di un anno. Serve un sistema produttivo che tenga quei ritmi. Bisogna tornare a fare magazzino, a disporre di scorte. Le logiche “just in time” non sono compatibili con i ritmi della guerra moderna. E qui il ministro Crosetto ha toccato più volte un punto essenziale: bisogna ricostruire una cultura della prontezza».

Anche il rapporto tra qualità e quantità va ripensato.

«Esattamente. Per decenni abbiamo puntato tutto sulla superiorità tecnologica, pensando bastasse. Abbiamo contratto le linee, ridotto le unità. Ora stiamo cercando, faticosamente, di invertire quella tendenza. Servono qualità e quantità. E trovare il giusto bilanciamento è una delle sfide più complesse».

È tornato attuale anche il tema del personale.

«L’Ucraina ha iniziato ad avere problemi quando non riusciva più a generare forza umana sufficiente. La Russia, con un bacino demografico molto più ampio, ha mantenuto una capacità di rotazione. Anche per noi torna d’attualità il concetto di riserva: serve flessibilità, adattabilità e una nuova attenzione politica al tema. Il mondo militare ha il compito di proporre modelli sostenibili. Ma poi servono decisioni».

L’industria europea è pronta a integrarsi davvero?

«Il mondo militare sa che troppe linee parallele sono insostenibili. Servono programmi comuni. L’accordo tra Leonardo e Rheinmetall sul carro armato europeo è un esempio virtuoso. Il ministro Crosetto lo ha detto chiaramente: bisogna scegliere, e scegliere presto. Non possiamo più permetterci la frammentazione. È una questione di efficienza, ma anche di sicurezza degli approvvigionamenti».

E anche di innovazione.

«La difesa è da sempre un motore tecnologico. Molte innovazioni civili sono nate in ambito militare. Investire nella difesa significa investire nella ricerca, nelle università, nei centri di sviluppo. Ma serve anche una nuova architettura organizzativa: più flessibile, meno gerarchica. L’industria deve essere partner strategico, non solo fornitore».

Passiamo alla Nato. La guerra ha accelerato molte trasformazioni. Qual è il ruolo dell’Italia?

«La Nato ha risposto con forza e concretezza. Sono stati sviluppati piani veri, credibili. L’Italia partecipa pienamente, e ha promosso la visione a 360 gradi oggi adottata dall’Alleanza: difesa da Est, ma anche dal Sud. Siamo presenti sul fianco Est – Lettonia, Bulgaria, Romania – ma anche nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Il nostro ruolo è quello di “equilibratore”, di ponte strategico. Contribuiamo alla deterrenza, ma anche alla costruzione di stabilità».

Difesa europea: sogno o realtà?

«L’Ue non è nata con una vocazione militare, ma oggi deve assumersi più responsabilità. Non esiste una difesa europea alternativa alla Nato, ma può esistere – e deve esistere – un pilastro europeo dell’Alleanza. L’Ue può fare moltissimo su interoperabilità, logistica, industria, sicurezza degli approvvigionamenti».

L’esperienza in Libano ha riaperto il dibattito sulle missioni Onu e sulle regole d’ingaggio. È tempo di una revisione?

«Sì, è necessario. Il ministro della Difesa ha sollevato il tema, chiedendo regole più realistiche. Parlo per esperienza diretta: le missioni devono essere sostenute da regole d’ingaggio adeguate e da un equipaggiamento coerente. In Libano, i nostri militari sono rimasti anche sotto i razzi. È una prova di responsabilità e credibilità».

E il futuro della stabilizzazione?

«Sta nel rafforzamento delle forze locali. Le missioni internazionali devono accompagnare, non sostituire. In Libano stiamo collaborando attivamente con le forze armate locali. È la strada giusta».

In Africa, l’Italia gioca un ruolo peculiare. Il disimpegno francese ci offre una responsabilità in più?

«Sì, ma è anche una grande opportunità. L’Italia è rispettata perché non impone, ascolta, costruisce. In Niger, quando altri sono stati invitati a lasciare, noi siamo rimasti. Non ci percepiscono come predatori, ma come partner. E questo fa la differenza».

Il Piano Mattei può essere una risposta?

«È un’ottima intuizione. Il nome Mattei ha peso, anche più di quanto pensiamo in Italia. Ora bisogna renderlo operativo, con progetti veri, condivisi, sostenibili. Non possiamo affrontare l’Africa quando la crisi è già esplosa. Bisogna agire prima».

Con quale obiettivo?

«Stabilità. Senza sicurezza non c’è sviluppo, non c’è istruzione, non c’è sanità. I numeri demografici dell’Africa sono enormi, ma lo sono anche le sue potenzialità. Bisogna lavorare con loro, non per loro. Solo così si evitano le crisi future».

Fonte: Il Tempo

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