“‘Israele è pressato, è un paese sofferente’, dice un visitatore solidale con un sospiro” scrive Corbin Barthold sul City Journal. “Le organizzazioni internazionali, la sinistra intellettuale e gran parte dell’Europa sono schierate contro di lui. Il sostegno americano è traballante. Gli israeliani stanno lottando per la loro esistenza, forse per la democrazia liberale stessa, ma ‘in quest’ora inquieta’, si lamenta il nostro pellegrino, ‘il mondo civilizzato sembra stanco della sua civiltà, e stanco anche degli ebrei. Non vuole più sentire parlare di sopravvivenza’. Il viaggiatore era Saul Bellow, anno 1975. Pochi mesi dopo, Bellow pubblicò un diario della sua visita, ‘To Jerusalem and Back’ (1976), la sua unica esibizione di saggistica in grande stile. In quel libro e altrove, prese posizione a favore della civiltà e la sua pretesa di fama letteraria duratura ne ha sofferto. Ma il legame tra Israele e la civiltà è reale e il racconto di Bellow del suo viaggio risuona ancora oggi. In questo libro, come nei romanzi di Bellow, ciò che colpisce per primo sono gli schizzi dei personaggi. Durante il volo verso est, Bellow siede accanto a ‘un giovane chassidico’ (‘il suo collo è sottile, i suoi occhi azzurri sono stralunati, il suo labbro inferiore sporge’) che si offre di pagarlo 15 dollari a settimana, a vita, per mangiare kosher. Si meraviglia di come uno studioso che conosce, ‘un vegetariano, un pacifista, un quacchero, il più strano, il più infelice, un affascinante eccentrico’, possa ‘innamorarsi dell’Islam militante’. Sebbene gli scontri di Bellow con personaggi del calibro di Yitzhak Rabin e Henry Kissinger possano essere di un certo interesse storico, i suoi ritratti di uomini più umili sono dove il suo talento brilla. ‘To Jerusalem and Back’ è strutturato, se questa è la parola, attorno a passeggiate e conversazioni, visite e cene, pensieri sparsi e impressioni sensoriali. Il libro è indisciplinato e sconnesso. ‘La valle di Giosafat, con le sue tombe. Una strada stretta e sui pendii acri e acri di pietra’. A volte sembra quasi soffrire della sindrome per cui la sua destinazione è famosa: ‘La luce di Gerusalemme ha poteri purificatori… Non mi proibisco di pensare che la luce possa essere l’abito esterno di Dio’. In ogni caso, le immagini e i suoni sono solo uno sfondo. L’attenzione di Bellow torna alla politica, al terrore esistenziale di un Israele turbato dalla guerra dello Yom Kippur. Alcuni dei nemici espliciti sono cambiati negli anni da quando Bellow ha scritto (l’Egitto è fuori, per esempio, mentre l’Iran è dentro), ma il desiderio di distruggere Israele persiste. Questo fatto crudele mantiene le meditazioni di Bellow stranamente aggiornate. ‘Gli ebrei’, scrive Bellow, ‘poiché sono ebrei, non sono mai stati in grado di considerare il diritto di vivere un diritto naturale’. Il subconscio israeliano è permeato dalla questione di scongiurare l’annientamento. Il mondo non è solidale. ‘Quando si tratta di Israele, si gonfia di coscienza morale’. I rifugiati di Africa e Asia sono trascurati e dimenticati; ‘solo il caso dei palestinesi è lasciato permanentemente aperto’. Le nazioni arabe hanno influenza all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ‘potrebbero facilmente approvare risoluzioni punitive’. La cosiddetta comunità internazionale disprezza Israele. L’Europa non è d’aiuto. Sta arrivando a credere ‘che il capitalismo sia finito e che la democrazia liberale stia morendo’. Sta scivolando verso l’austerità (quello che ora chiameremmo decrescita). Nel suo declino gestito, abbraccia ‘il feudalesimo arabo, il socialismo arabo, il comunismo cinese’. In Francia, Le Monde ‘sostiene i terroristi… Una recente recensione dell’autobiografia di un fedayn parla degli israeliani come colonialisti’. L’abilità militare di Israele è fastidiosa: salvare ostaggi dai fanatici del Terzo Mondo sconvolge i piani europei ‘per un nuovo ordine internazionale’. Israele può riporre la sua fiducia nel sostegno degli Stati Uniti? L’America è una terra di politica caotica, attenzione distratta e fiducia scossa. Ha ‘una passione per l’autocritica’, nota Bellow. ‘Ci accusiamo di tutto, siamo per sempre sotto orribili accuse, sotto processo e deliranti confessioni più improbabili’. La maggior parte degli americani sa dolorosamente poco di Israele. L’intellighenzia di sinistra si è gettata a capofitto nella causa araba. ‘Discute della Palestina con categorie marxiste-leniniste: finanza, capitale, colonialismo, imperialismo. I nazionalisti arabi devono solo gridare slogan anti-imperialisti per ottenere sostegno’. Israele non è senza peccato; nessuno stato lo è. Bellow è in sintonia con i difetti della nazione e sottolinea i suoi fallimenti nell’alleviare le sofferenze palestinesi. Ma Bellow non ha paura di denunciare il problema alla radice: gli arabi si rifiutano di consentire agli ebrei, ‘finora una comunità sottomessa all’Islam, di esercitare la sovranità politica in un’area considerata parte del dominio musulmano’. ‘In questa sgradevole terra dei sogni’, osserva Bellow, ‘i sionisti hanno piantato frutteti, seminato campi e costruito una società fiorente’. Più di questo, hanno costruito un paese democratico e libero. Israele ‘da solo rappresenta la libertà in Medio Oriente’. Gli israeliani non si tirano indietro di fronte a tali proposizioni. Il loro stile di vita è ‘tutt’altro che invidiabile, eppure ha uno scopo chiaro’. L’occidente, al contrario, è senza guida. Le ‘nazioni democratiche’ sembrano ‘aver dimenticato cosa sono’.” Il loro legame ‘con la civiltà che le ha formate si sta allentando e diventando strano’, e ‘sono curiosamente letargici riguardo alla loro libertà’. La causa di Israele non è niente di meno che la causa della civiltà occidentale. Ma l’occidente è malato. ‘Molti esultano per la sua morte imminente’. ‘Se vuoi che tutti ti amino’, riconosce Bellow, ‘non discutere di politica israeliana’. Allora come oggi, la sinistra universitaria ha reagito male al sentimento pro-Israele. Ma dai tempi di Bellow, lo scherno si è trasformato in odio. Sebbene Bellow non sia vissuto abbastanza per affrontare questa barbarie, la vide avvicinarsi. Bellow non si è mai considerato un conservatore e si è irritato quando gli è stato dato questo nome. A posteriori, però, è difficile comprenderlo, più avanti nella vita, in altro modo. Forse non si è unito alla destra, ma quando i liberal hanno perso il contatto con la civiltà che li aveva formati, ha accettato di essere abbandonato dalla sinistra. In ‘To Jerusalem and Back’, Bellow riflette se ‘c’è qualcosa negli ebrei che suscita follia tra gli altri popoli’. Una misura della civiltà è il grado in cui una società va nella direzione opposta”. (Traduzione di Giulio Meotti).

Fonte: Il Foglio con fonte City Journal

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