di Antonio Bettelli

Non è mai facile tracciare il ricordo di una persona scomparsa, ancor più se l’avvenimento luttuoso lambisce il margine dell’incomprensione e ci lascia spettatori attoniti innanzi alle contraddizioni del vivere, tra gioia e dolore, tra successo e oblio, tra clamore e silenzio.

È bene, in questi casi, farsi guidare dal proprio stato d’animo, che a suo modo palesa, con la trasparenza dell’immediatezza, la propria essenza. Esso riflette, sfolgoranti in taluni momenti, le policromie cangianti della natura umana, anche di quella parte di ciascuno di noi celata tra le pieghe dell’inconscio. Accade, allora, che il caleidoscopio della coscienza s’illumini: sono luci e ombre, paure e commozione, esaltazione e sconforto.

La persona alla quale mi riferisco, accogliendo l’invito del direttore, è il generale Claudio Graziano, prematuramente scomparso in circostanze che ci lasciano ancor più affranti per il contrasto tra la luce riverberata dall’uomo e la possibile velatura di un’idea di solitudine, forse insostenibilmente manifestatasi nel passaggio tra ciò che egli era, attivamente nel suo vivere sociale, e ciò che egli continua a essere nel nostro ricordo; ritengo anche nell’idea di un dopo al quale possiamo affidare le nostre preghiere.

Quanto fatto dal generale Graziano è di portata ampissima. Egli ha segnato con la sua leadership gli ultimi quindici anni del vissuto delle Forze armate italiane, tracciando un solco profondo e per taluni aspetti senza precedenti nella consuetudine di una burocrazia amministrativa restia ai cambiamenti e agli scossoni improvvisi. Lo ricordo in particolare all’inizio del periodo che lo vide assurgere ad astro di riferimento della politica militare italiana, quando, ancora con il grado di generale di divisione e con le insegne della Nazioni Unite, assunse l’incarico di comandante della Missione Unifil nel sud del Libano. Non era un momento qualsiasi: la guerra dei trentatré giorni tra Israele e Libano (occorrerebbe dire tra Israele e Hezbollah, ma il Libano fu colpito nel cuore della sua capitale) era terminata da poco tempo; il comando di Unifil passò dalle mani del generale francese Alain Pellegrini a quelle del generale Graziano.

Era il 2007 e l’Italia aveva meritato con il suo ruolo politico attivo nella ricomposizione della crisi quella posizione di primo piano. La risoluzione 1701, conseguente al conflitto, aveva reso il mandato della missione più robusto, elevando il numero dei caschi blu tra il fiume Litani e la linea di demarcazione con Israele, la cosiddetta Linea Blu, a un massimo di quindicimila unità, con pari presenza auspicata anche per le Forze armate libanesi le quali, finalmente, con l’autorità conferita loro dal mandato internazionale, avevano l’opportunità di riappropriarsi della sovranità a sud del Paese.

Il generale Claudio Graziano in poco tempo divenne il simbolo di quella lenta ricomposizione: arbitro delle riunioni tripartito a Ras Naqoura tra le forze armate dei due stati contrapposti; interlocutore dei numerosi amministratori locali, molti di essi affiliati alle fila di Hezbollah; fine emissario della diplomazia planetaria impersonata dalle Nazioni Unite; abile tessitore dei rapporti con gli ambasciatori e con i capi di governo delle molte nazioni che contribuivano con personale militare e civile e con risorse materiali alla missione; referente, anche politico, delle due parti a confronto; controllore dell’applicazione della risoluzione e giudice spesso severo delle violazioni commesse.

Il generale Graziano, in quel ruolo, non era solo comandante militare della Forza (Force Commander), ma anche Capo della Missione, e in quel contesto, non facile, seppe magistralmente palesare la sua propensione al governo sia militare sia civile. Lo ricordo in quella straordinaria veste poiché mi trovavo nello stesso periodo a Beirut, presso la nostra ambasciata come addetto per la Difesa; e così, per dovere, ma poi scoprii anche per apprendimento e crescita personali, ebbi il privilegio di osservarne l’arte del comando e dell’assertività, la forza del carattere, la spiccata personalità, le qualità di uomo e di soldato.

Dal tratto ruvido, talora abbarbicato dietro a un’espressione non penetrabile, sapeva con puntualità aggiornare gerarchi, politici e ambasciatori sulle sorti della Missione. Lo faceva ricorrendo a metafore asciutte, ma comprensibilissime, tanto in italiano quanto in inglese, mai lasciando l’ombra del dubbio nella comprensione dei suoi interlocutori. Ogni avvenimento della sua agenda di lavoro accadeva con precisione maniacale, cronometrica, millimetrica, poiché nulla poteva essere lasciato al caso.

L’imparzialità della sua figura e del suo ruolo gli stava profondamente a cuore, e a conferma di questo fondamentale aspetto del suo alto mandato era solito dire che fintato che egli era criticato da entrambe le parti allora voleva dire che stava facendo bene il suo mestiere. Era così infatti: sapeva fare bene il suo mestiere! Con lui, anche in qual frangente, vi era la signora Marisa, a sostenerlo in quel mandato e in quel ruolo. Tra i tanti appartenenti alla Missione, solo al comandante e al vice comandante, all’epoca quest’ultimo era un generale indiano, era permesso di avere il coniuge vicino, per meglio adempiere ai numerosi compiti di rappresentanza.

Tra i due sposi, la signora Marisa e il generale Graziano, traspariva la forza di un legame esclusivo, unico, insostituibile. Una cura vicendevole che assumeva, agli occhi di chi avesse l’opportunità di osservarne alcuni momenti insieme, l’espressione della stima e del rispetto. Sostegno reciproco in quel ruolo difficile, che li aveva proiettati ancora una volta in un luogo infido e remoto, i due coniugi condividevano la loro armonia, alveo di un rapporto unico al quale solo i più vicini collaboratori potevano affacciarsi per il disbrigo delle dovute faccende di servizio. Non posso immaginare l’affondo nel cuore vissuto dal generale nel tempo della malattia della sua compagna di vita, e poi per la scomparsa di lei che ha preceduto di poco più di un anno la comune sorte dei due sposi. A loro, a entrambi, rivolgo una sentita preghiera.

 

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