di Fabio Tonacci
Un muro di fumo grigio si alza sul confine Nord, oscurando il cielo e intasando i bronchi. Brucia la foresta di ginepri rossi sulla collina di Kiryat Shmona (nella foto), vanno a fuoco le Alture del Golan a Ramin Ridge e a Katzrin, la cenere insozza le palme di Margaliot e il frutteto di Sasa. Da quando in Alta Galilea fanno 35 gradi a mezzogiorno ed è iniziata la stagione secca, i razzi di Hezbollah sono diventati ancora più pericolosi: se colpiscono distruggono, se vengono intercettati incendiano.
Cessate il fuoco, o almeno spegnetelo. Vale prima di tutto per Gaza ma vale anche qui a Nord perché le fiamme ormai lambiscono le case e il coraggio dei rimasti. A ogni ora del giorno, in particolare alle 8 di mattina e a metà pomeriggio, pezzi di ferro incandescenti cadono su declivi riarsi dal sole, incenerendo la speranza di chi vorrebbe a tutti i costi restare, nonostante i 5 mila attacchi delle milizie libanesi registrati dal 7 ottobre a oggi. Arriva di tutto: missili, droni esplosivi, persino i razzi anti-tank, tanto sono vicine le postazioni dei miliziani nella boscaglia. A Sasa la sera non accendono più la luce, per non diventare bersagli. A Dovev è stata colpita la sinagoga.
La statale 90 sale fino a Metulla, l’ultima falange del dito della Galilea che si incunea nel Libano. «Andate via!», urla davanti a una transenna un piantone dell’esercito israliano. «Altri trenta razzi in avvicinamento», «forse sono droni», «no sono razzi, sull’altra montagna», «comunque andate via!». Una cappa avvolge Kiryat Shmona, che dista due chilometri dalla frontiera, il cielo senza nuvole si è fatto tavolozza di gialli sporchi. Ci si è messo anche il vento ad attizzare gli arbusti asciutti e undici squadre di emergenza sparano litri d’acqua sul fuoco indossando le mascherine antifumo. Oltre la collina ci sono i miliziani sciiti che calibrano traiettorie ad arco il più possibile rasenti al terreno per sorprendere l’Iron Dome, il sistema antimissile dello Stato ebraico che a Nord non ce la fa a prenderli tutti come a Tel Aviv.
Alle sirene della contraerea si aggiunge la sirena dei pompieri: l’ordinario tappeto sonoro di una giornata al confine col Libano. Sul fronte Nord gli israeliani si dividono in rimasti ed evacuati. Da quando Hezbollah ha deciso di aiutare Hamas tenendo impegnate le forze armate in Galilea, in 60 mila hanno abbandonato villaggi e kibbutz. Gli evacuati. Sono sfollati negli hotel del lago di Tiberiade, pagati dal governo. Altri sono andati in affitto, ma si lamentano dell’aumento delle pigioni perché la guerra è orribile ma non ferma gli speculatori.
A Kiryat Shmona, in ebraico la Città degli Otto in omaggio agli otto trucidati nel 1920 in un assalto arabo nella vicina Tel Hai (morì anche Iosif Trumpeldor, fondatore della Legione ebraica), vivono in 5 mila: erano 23 mila prima del 7 Ottobre. L’Università locale è chiusa, le lezioni sono online come durante il Covid, oppure in presenza a Haifa. Il sindaco Avichai Stern è convinto che Netanyahu e l’esercito siano concentrati solo sulla Striscia di Gaza e non facciano niente di incisivo a Nord dove la maggior parte degli israeliani vorrebbe l’invasione di terra per spingere le milizie libanesi oltre il fiume Litani, come da risoluzione Onu 1701. Si è formato un gruppo di residenti, Lobby 1701, accampato davanti all’ufficio del primo ministro.
Il sindaco Stern ha incontrato Ori Gordin, il generale del Comando Nord. Non è finita benissimo. «Da lui ho ricevuto solo risposte evasive. Se fosse aggressivo con Hezbollah come lo è con me, dormirei sonni tranquilli». Il punto è che qui non dorme più nessuno. Maggio è stato il mese peggiore: 325 attacchi (erano 238 ad aprile), una media di 10 al giorno, che si è alzata a 50-60 nel weekend appena passato, secondo i dati del centro di ricerca Alma. Non è solo una questione di numeri, ma anche di raggio di azione: Hezbollah è arrivata a colpire con droni kamikaze Nahariya, sulla costa, e ha puntato Acri, ampliando ad almeno 150 mila la platea degli israeliani sotto tiro.
L’Idf ritiene che lo facciano per difendere Hamas, drenando risorse militari all’avanzata a Rafah. Alcuni analisti invece, legano l’escalation alla proposta israelo-americana per la fine della guerra. A Dovev erano in 400, ora sono in dieci. Il villaggio è a un chilometro dalla Linea Blu punteggiata di colonne di fumo. Due sabati fa i razzi hanno distrutto la sinagoga, la pizzeria e dieci case. «Hezbollah attacca i nostri luoghi simbolo, vogliono cancellare Israele», dice il colonnello Oliver Rafowitz, portavoce del Comando Nord, allungando lo sguardo dentro la sinagoga. I banchi rotti, le macerie, l’altorilievo di una Stella di David sul soffitto. «Se i miliziani non la piantano, rischia tutto il Libano…», fa Rafowitz. Mormorando quello che, sul confine Nord, è il pensiero di tanti.
Fonte: la Repubblica