Foto: S. Garbo

di Antonio Bettelli

La ricorrenza del 2 giugno di quest’anno a Monte Cavallara evoca alcuni dei momenti più significativi non solo della storia di Marradi e dell’appennino tosco-emiliano e romagnolo, ma anche del percorso storico dell’intera Nazione. Quelle vicende narrano il contributo di sacrificio personale e collettivo offerto dai tanti soldati stranieri che combatterono durante il secondo conflitto mondiale per la liberazione dell’Italia. Tra quei contributi vi fu la partecipazione generosa degli amici Sikh alla cui memoria è stata posata su Monte Cavallara nel 2013 una lapide che rammenta l’ingente tributo di sangue versato dai soldati dell’Ottava Divisione Indiana per la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista.

Ottant’anni sono trascorsi dai fatti d’arme che tra le vallate e tra le cime di questi luoghi segnarono momenti di grande dolore per i marradesi e per la gente dei villaggi e delle case circostanti. Mai Marradi conobbe distruzione più grande di quella occorsa nell’estate del 1944, quando le sorti della Seconda Guerra Mondiale, prossime al loro epilogo, videro fronteggiarsi sulla Linea Gotica le truppe alleate, i soldati del rigenerato Esercito Italiano e le formazioni partigiane da un lato e l’esercito tedesco sostenuto dalle unità militari della Repubblica Sociale dall’altro.

Fu guerra vera, combattuta con il dispiegamento di forze poderose, preceduta nelle sue fasi terrestri da massicci bombardamenti aerei che, nell’ostacolare il ripiegamento delle truppe nazifasciste, anche tagliandone le vie di rifornimento logistico, distrussero molti dei luoghi di vita e di lavoro di questo territorio. Come sempre accade quando la rivalità tra i popoli sfocia in conseguenze estreme, gli accadimenti di quei giorni di guerra furono segnati da numerosi lutti, da azioni di coraggio estremo, da atti di disperazione, ma anche da moti di vendetta, di rappresaglia e di odio tra la gente comune. Nella sua inevitabilità – le cause della guerra erano già allora lontane e irrisolvibili – il genere umano manifestò se stesso nelle espressioni estreme di odio e di amore, di paura e di coraggio, di altruismo e di opportunismo.

Mai si dovrebbe arrivare a tanto, e il messaggio di amore insito nella transitorietà e nella non permanenza del vivere dovrebbe indurci a sostenerci vicendevolmente, ad aiutarci, ad accompagnarci gli uni con gli altri nel cammino breve ed effimero della vita terrena. Ciò, tuttavia, non accade spesso, non a sufficienza per garantire senza distinguo di appartenenza, di religione, di razza o di genere il benessere dell’umanità, e ancora oggi, nonostante i tragici fatti di allora, osserviamo la crudeltà dei conflitti armati combattuti con atrocità nel cuore dell’Europa e nel Vicino Oriente.

Più che mai significativo è, pertanto, commemorare il ricordo dei nostri padri e dei nostri nonni, i quali la guerra la vissero sulla loro pelle, la videro con i loro occhi e la soffrirono nel profondo del cuore e dell’anima. I soldati Sikh, di cui il 2 giugno, è ricordato il contributo offerto alla campagna militare d’Italia per la liberazione, divennero, combattendo al fianco dei soldati del Gruppo di Combattimento FRIULI, nostri fratelli per sempre. Con essi, quest’oggi, lo sono i loro figli e i loro nipoti. Il merito della fratellanza odierna, nel retaggio del valore umano e spirituale corroboratosi in quei giorni difficili del 1944, è in parte ascrivibile all’opera appassionata di Romano Rossi, Presidente dell’Associazione Reduci del Gruppo di Combattimento FRIULI per molto tempo fino al 22 aprile dello scorso anno, giorno della sua prematura scomparsa.

Romano era cittadino di questi luoghi e fu proprio grazie al rapporto genetico con questa terra che egli maturò la sua straordinaria e indimenticata sensibilità per la storia vera e viva. Quello di Romano fu infatti amore per la verità, prima ancora che per la storia, fu amore per la sua gente e fu rispetto filiale per suo padre e per i tanti padri che con il racconto umile di cui egli fu spesso testimone, divenendone storico, evocavano le immagini della guerra e della Liberazione. Nel rammentare quei fatti, Romano era spesso attraversato dalla commozione, e non di rado, quando lamentava la trascuratezza del ricordo rispetto al valore della storia, la sua partecipazione emotiva assumeva i contorni del dispiacere, se non dello sdegno. La verità che egli aveva pazientemente ricostruita con lo studio e con le testimonianze raccolte nelle numerose interviste con i reduci e con gli abitanti di questi luoghi, prima ancora ascoltando da bambino i racconti degli anziani, lo animava al punto da non rendergli accettabile l’oblio che i tempi moderni, le strumentalizzazioni politiche, gli individualismi opportunistici o più semplicemente l’ignoranza e l’indifferenza rendevano tangibile a detrimento della verità. E questo fu il suo vero impegno: rendere la verità accessibile a tutti, raccontarla, condividerla, mantenerla viva e viverla. Della verità Romano voleva impedire la mistificazione.

Innumerevoli sono state le iniziative di cui Romano si fece promotore: innanzitutto il rapporto con i Reduci che considerava come propri secondi padri. Li conosceva tutti, uno per uno, li frequentava, e quando il tempo ne provocava il passaggio alla vita del dopo Romano non mancava di assicurare la sua presenza, non solo alle esequie, ma anche nelle visite alle famiglie o ai luoghi di sepoltura dove egli si recava, quasi in pellegrinaggio, per apporre o per rinnovare sulla lapide il simbolo del tricolore turrito della Friuli. Lo accompagnavano spesso Bruno Trincossi, altro gigante di umiltà, che fu autista dell’epico comandante del gruppo di combattimento Friuli, il Generale Arturo Scattini, e poi vi era sempre Ivano Cardinali, che con la sua veracità toscana, da buon partigiano del Valdarno, poi divenuto nel 1944 soldato della Friuli, ricordava, persino gridava con l’enfasi suggerita dal cuore, la dignità che solo il sacrificio degli italiani conferì alla libertà. Ce lo dicevano spesso, Romano, Bruno e Ivano, che la libertà gli Alleati ce l’avrebbero data comunque, ma che essa sarebbe stata priva di dignità se non vi fosse stato il tributo dei soldati italiani, dei partigiani e dei cittadini impegnati nei moti di resistenza e degli internati militari italiani – furono circa seicentomila – che nei campi di prigionia in cui vennero reclusi dopo l’8 settembre rifiutarono la libertà che sarebbe stata loro concessa se avessero aderito alla Repubblica Sociale. Questa era la verità di Romano, questa è la verità.

La liberazione dell’Italia fu principalmente dovuta allo sforzo militare delle truppe alleate, ma essa, con la partecipazione dei soldati italiani e con la resistenza, riguardò una parte della Nazione la cui scelta di campo si rivelò, al rendiconto della storia, giusta. Essa fu moto popolare e istituzionale, fu campagna militare e fu impegno civile. La liberazione e la resistenza riguardano tutti noi, è la nostra storia ed è la storia degli Italiani, senza schieramenti, senza divisioni, senza colori. Che valore ha la libertà se è priva di dignità? Questa domanda, con l’implicita risposta, echeggiava nelle lezioni di vita che Romano ci impartiva.

Poi, vi era il rapporto con le rappresentanze degli eserciti alleati, di quelli che militarono al fianco della Friuli tra queste montagne e poi nella pianura padana sino alla liberazione di Bologna e di Venezia: quindi la Brigata Ebraica, che a Cuffiano, nel frangente della battaglia di Riolo Terme, ricevette il suo vessillo di combattimento, divenuto poco dopo la bandiera dello Stato di Israele; poi la Prima Divisione Britannica che si insediò a Palazzuolo sul Senio con il suo quartier generale, e poi i combattenti Sikh dell’Ottava Divisione Indiana con i cui discendenti Romano consolidò, anche frequentandone il tempio a Novellara nel reggiano, i sentimenti di amicizia.

Vi fu inoltre la sua meritoria e grandiosa opera di scrittore che portò alla pubblicazione di numerosi testi storici sui gruppi di combattimento e sulla campagna di liberazione nel fiorentino, nel ravennate e nel bolognese. Quei testi sono oggi a portata di tutti, sono il suo lascito non solo narrativo e letterario, ma soprattutto spirituale, e sono il monito a non rinunciare al racconto, perché il cammino della verità è inesauribile.

Sappiamo che il suo più grande desiderio era quello di far sì che nei libri di storia delle scuole secondarie, medie e superiori, vi fosse almeno un trafiletto dedicato ai Gruppi di Combattimento. Lo era a tal punto che con la sua determinazione Romano riuscì a portare questo desiderio nelle sedi istituzionali romane e alla Presidenza della Repubblica. La missione purtroppo è ancora incompiuta.

Con la commemorazione del 2 giugno, dedicata ai soldati Sikh, con le iniziative dell’Associazione Reduci del Gruppo di Combattimento Friuli, con la partecipazione della gente di queste valli, soprattutto con la verità che deriva dal corretto insegnamento della storia, abbiamo, tutti noi, il dovere di continuare nel cammino appassionato e umile che Romano Rossi ci ha indicato.

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