di Antonio Bettelli

Come una mareggiata provocata da un vento lontano, le onde del fenomeno innescato dalla visione contraria del mondo continuano a percuotere lo spazio di simbiosi tra conoscenza e coscienza. Terra e acqua si mescolano nell’area ristretta di confine tre le due dimensioni; la solidità e la liquidità originano un composito ibrido, ammorbidito o rappreso a seconda dell’andirivieni dei marosi.

Sulla battigia metaforica della nostra percezione, il riverbero schiumoso dei pensieri disegna figure pareidoliache che vorrebbero ingannarci e convincerci dell’esistenza di un messaggio vero. Il messaggio rivela presto, nella realtà, la sua inconsistenza.

Molto presto gli effetti provocati dal tumulto dell’ultimo fenomeno straordinario si affievoliranno al punto da scomparire. Alla mareggiata, seguirà il mare calmo.

Non voglio, tuttavia, arrendermi al destino di oblio al quale ogni azione umana è destinata. Mi affido allora alla storia, alla letteratura, all’arte, al pensiero di alcuni grandi. Con loro ricerco apporti che siano sopravvissuti al vaglio del tempo trascorso e agli effetti distruttivi di precedenti mareggiate.

In questi giorni ho pensato molto ai giovani, e tra questi, in particolare, agli allievi degli istituti di formazione militare, ventenni o poco più, e ho riflettuto sulle figure e sulle forme intellettuali che potrebbero essere apparse nella loro “battigia percettiva” a fronte e per effetto delle discussioni accese dal dibattito mediatico su temi così prossimi alla dimensione militare, al senso del servizio alla collettività, ai valori che vengono loro trasmessi nello svolgere le quotidiane attività formative, valori espressi da termini altisonanti come coraggio, onore, lealtà.

Negli istituti scolastici e formativi della Difesa italiana si è esposti a un incedere frenetico di impegni cadenzati da intensi programmi di studio e di lavoro: si tratta di curricula dedicati a materie di carattere generale – che spaziano dalla dimensione scientifica a quella umanistica e giuridica – alle attività sportive – scelte con il criterio non solo di curare la prestanza fisica, ma soprattutto di preparare al confronto a testa alta con l’avversario – alle tecniche e alle tattiche militari – per conoscere le modalità di combattimento e i mezzi, i materiali e gli equipaggiamenti in uso alle Forze armate e all’avversario – e all’educazione morale – per sedimentare e far germogliare il senso del servizio allo Stato e alla collettività nazionale, da intendersi in armonia con i principi non solo dell’arte militare, ma anche dello spirito democratico delle nostre istituzioni repubblicane.

Mi preme allora sottolineare l’importanza dell’esempio trasmesso dal comportamento dei formatori, ufficiali, sottufficiali e graduati d’inquadramento delle classi militari dei nostri istituti, dei docenti e di chiunque, indossando l’uniforme, si faccia portavoce dei messaggi di coraggio, di onore e di lealtà che con estrema delicatezza sono proposti ai giovani allievi.

Ecco, forse proprio l’idea del coraggio, che ben si raccorda allo spirito di un giovane che intraprenda la professione militare, può subire, prima ancora degli altri valori, un indirizzamento intellettualmente distorto dagli accadimenti degli ultimi giorni, specie nei casi in cui un animo non ancora pienamente formato possa ritenere che parole scomode siano autentica manifestazione di coraggio.

Vorrei dunque evidenziare la delicatezza della formazione militare ed esprimere ciò che io stesso ho imparato, e a mia volta insegnato, in tanti anni di servizio. Lo faccio perché mai come ora, a fronte delle false profezie ascoltate e lette in questi giorni, avverto come fondamentale il poter riguadagnare una posizione di equilibrio istituzionale. Lo faccio perché troppi fraintendimenti ho inteso coesistere sul significato di regola e di libertà per chi indossi l’uniforme, e lo faccio per chiunque abbia il desiderio di comprendere che cosa significhi coraggio militare.

Mi rivolgo, nel farlo, ad alcuni punti fermi della mia esperienza: comandanti che sono stati per me maestri di vita, ma anche definizioni espresse dalla letteratura militare e, ancora una volta, dai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale.

Come tutti i fondamenti, gli articoli della nostra Carta non elencano mere azioni od omissioni, illeciti o sanzioni, e non forniscono una formula risolutiva pragmatica e regolamentare ai quesiti di liceità o di illiceità sui comportamenti umani. Quei principi afferiscono all’etica alta e laica del cittadino italiano; essi rappresentano la separazione sociale e civica tra bene e male.

Venendo dunque al coraggio, valore che ho prescelto per le parole di questo articolo, nel suo trattato Della Guerra il generale Carl von Clausewitz, vissuto tra il 1780 e il 1831, definiva il mestiere delle armi come dominio della paura e della sofferenza fisica. Egli asseriva che i militari, soprattutto coloro che hanno responsabilità di comando, necessitano, per poter esercitare il dominio delle condizioni avverse che sono proprie dello scontro militare, di coraggio sempre sostenuto dall’intelletto.

Secondo il generale prussiano, coraggio non era da intendersi come sprezzo del pericolo, qualità necessaria a chi compia azioni estreme animate più dall’incoscienza che dalla consapevolezza, ma invero come esercizio della responsabilità innanzi non solo alle regole e alla norme ma soprattutto alla propria coscienza. Coraggio dunque verso le proprie decisioni, nella piena consapevolezza delle conseguenze prodotte dall’esercizio decisionale per sé ma soprattutto per gli altri. Coraggio che quindi implica altissimo il senso della responsabilità.

L’intelletto, invece, era definito dalle parole di Clausewitz come capacità di vedere la luce in fondo al tunnel oscuro dell’incertezza e della paura; come capacità dunque di non disperare a fronte delle avversità, rendendo visibile ciò che non appare, illuminando l’oscurità e trascinando i propri uomini al di fuori del pericolo fisico e morale. Intelletto quindi come visione e come profonda ricerca della verità, ben al di là delle apparenze.

Pochi giorni fa, il 25 agosto, è ricorso il novantesimo compleanno del generale Franco Angioni (nella foto) paracadutista incursore della Folgore, comandante della missione italiana in Libano negli anni 1982-1984. Io ebbi la fortuna di conoscerlo nel 2009 in occasione della Festa delle Forze armate celebrata in Libano e di rivederlo ancora nel 2011, sempre nella capitale del Paese dei Cedri. Nella seconda occasione d’incontro – lui aveva lasciato il servizio attivo per limiti di età già da diversi anni – lo accompagnai in una visita a Beirut per la preparazione di un documentario della Rai che avrebbe ricostruito le tappe salienti della missione italiana in Libano trent’anni dopo.

Insieme, con il generale, visitammo, tra le mete di quel viaggio nel ricordo, il campo palestinese di Bourj el Barajne, alla periferia sud della città. Tra quelle strade ancora polverose, con i rigagnoli delle fogne a cielo aperto, in un dedalo di umanità vivace e povera, ebbi il privilegio di ascoltare i suoi racconti e di partecipare all’abbraccio con un adulto del campo che era, all’epoca della missione, uno dei tanti bambini che giocavano con i soldati italiani. Il palestinese, diventato adulto, si chiamava Giorgio. Così era stato ribattezzato dai soldati italiani per via della non facile pronuncia del suo nome arabo. D’improvviso, avendo riconosciuto nello sguardo degli occhi azzurri l’anziano incursore, Giorgio corse via come un fulmine e si ripresentò, ansimante qualche minuto dopo, con una foto tra le mani: un’immagine che ritraeva il generale con alcuni suoi collaboratori ospiti della modesta casa dei genitori di Giorgio trent’anni prima. Ne seguì un abbraccio fraterno tra l’adulto palestinese e il generale, come se il tempo non fosse passato. Con quell’esempio di straordinaria umanità, non dissipata dal tempo trascorso, il generale mi raccontò e mi insegnò tante cose. Una tra le molte che ascoltai mi colpì in particolare, e lo fece più delle altre perché trattava di coraggio, di intelletto e di responsabilità. L’insegnamento del generale toccò l’argomento dei bombardamenti, in un periodo contemporaneo a quella visita in cui spesso, nel dibattito politico e nell’opinione pubblica nazionali, si discuteva di bombardamenti preventivi e di munizionamento intelligente.

Lui, il generale Angioni, mi disse, allora, che i bombardamenti preventivi non esistevano e che la guerra andava combattuta con il rischio di perderla e di morire, piuttosto che procurarvi una morte ingiusta. Il fuoco doveva colpire il nemico e non, invece, chi fosse vittima innocente del nemico. Non esistevano, secondo la sua visione, bombardamenti intelligenti, esistevano solo bombardamenti coraggiosi (ne era sottinteso il concetto di responsabilità verso le regole ma soprattutto verso la coscienza di Comandante e di uomo).

In questi giorni di mareggiata, mi aggrappo allora a questo ricordo, alle definizioni antiche, ai principi della nostra Carta Costituzionale e lì attendo il mare calmo.

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