Lo storico francese Thierry Wolton, studioso dei regimi comunisti, analizza le ragioni profonde dell’invasione russa

L’aspetto più sorprendente negli eventi che stiamo vivendo da un anno a questa parte non è tanto il martirio subito dall’Ucraina, voluto e annunciato dal presidente russo Vladimir Putin, quanto il nostro sgomento per il suo attacco, il 24 febbraio 2022, e in seguito per la crudeltà di un conflitto di altri tempi sul nostro vecchio continente” scrive Thierry Wolton (nella foto), che ha curato la stesura dell’opera in tre volumi “Une histoire mondiale du communisme”, uscita per le edizioni Grasset.

“Per coloro che hanno prestato attenzione alla natura del potere russo da un quarto di secolo a questa parte, questa situazione era purtroppo prevedibile. L’arrivo al potere di Putin, all’alba degli anni Duemila, è stato preceduto da un’ondata di terrore, alimentata da una serie di attentati commissionati dai suoi sostenitori, il che dava già un’idea di ciò che sarebbe accaduto. Poi è stata dimenticata: la guerra di distruzione condotta in Cecenia con l’aiuto degli islamisti per sradicare qualsiasi aspirazione nazionale; lo sfruttamento dell’economia russa da parte di un manipolo di predatori; la soppressione di tutte le libertà acquisite dai tempi del crollo dell’Unione sovietica; la riscrittura della storia che permette di giustificare tutti i crimini; il lavaggio del cervello della popolazione attraverso la propaganda; l’insaziabile spirito di vendetta di un dittatore convinto che il paradiso sovietico si sia sgretolato per colpa di un occidente guerrafondaio e ossessionato dall’idea di farne pagare il prezzo alle democrazie.

A queste constatazioni, alcuni hanno trovato delle scuse, invocando un’espansione imperialistica della Nato che avrebbe minacciato la Russia. Mosca avrebbe dunque agito per legittima difesa. Dalla caduta del comunismo, l’organizzazione militare occidentale ha certamente messo piede in ciò che era l’ex blocco sovietico, ma sempre su richiesta dei paesi implicati, scottati dalla loro relazione con il loro grande vicino, una relazione fatta di lacrime e sangue, e preoccupati a giusto titolo dallo spirito revanscista di Putin. Qualsiasi regime che opprime il suo popolo costituisce una minaccia per il suo vicino. Bisognava dunque rassegnarsi a questa fatalità, al fatto che le ex colonie sovietiche fossero nuovamente abbandonate all’appetito di un dittatore che, pur non essendo più comunista, ha lo stesso modo di pensare, compreso un culto immoderato per il rapporto di forza?

Nessuno a est dell’Europa lo voleva, né lo vuole oggi, il che spiega la ricerca di una protezione occidentale, Unione europea e/o Nato, a cui l’Ucraina ormai aspira. Vladimir Putin non vuole alle sue frontiere dei contro-modelli di società che potrebbero dare delle brutte idee ai russi. La Georgia, la Bielorussia e ora l’Ucraina sono le vittime di questa paranoia. Insomma, quello che il dittatore russo ha temuto maggiormente non è stata l’estensione del dominio della Nato, ma la “rivoluzione delle rose” del 2003 a Tbilisi, la “rivoluzione arancione” del 2004 a Kyiv e le manifestazioni di Maidan nel 2014, nonché le proteste di massa a Minsk contro i brogli durante le elezioni presidenziali bielorusse del 2020 (…). Quando è caduto il comunismo, le democrazie hanno avuto paura del crollo del blocco socialista in nome della logica di stato che privilegia l’ordine esistente conosciuto al disordine sconosciuto futuro. La volontà, spesso manifestata ai nostri giorni, di risparmiare la Russia di Putin, di non umiliarla, fa parte di questo stesso comportamento pusillanime. Al timore di uscire dalla divisione di Yalta negli anni 1989-91 è seguita, trent’anni più tardi, la paura di un nuovo caos europeo. La compromissione con un potere dittatoriale e corrotto è stata preferita alla resistenza dinanzi alle sue esigenze, il potere è rimasto e le sue esigenze sono messe in pratica. Purtroppo, senza l’eroismo degli ucraini che ha risvegliato la nostra coscienza, le democrazie si sarebbero probabilmente adattate al riassetto russo come a un semplice “incidente di percorso”.

Fonte: Il Foglio con fonte Le Figaro

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