Ho tradotto per voi al volo un testo scritto e pubblicato oggi dal regista russo Kirill Serebrennikov sulla sua pagina Instagram. Una riflessione sulla guerra, sulla Russia, sulla follia. Il suo testo si ispira a una fotografia, macabro simbolo della carneficina a Bucha. Un’immagine come si suol dire iconica: quella della mano di una giovane donna con le unghie smaltate di rosso.
Buona lettura, Olga Strada
Smalto rosso
“Ogni giorno guardo le fotografie della guerra. Le guardo di continuo. Città distrutte, automobili bruciate, persone uccise. Lo smalto rosso sulle dita di una mano inanimata. Ogni giorno, ovunque mi trovi, mi sembra che sopra la mia testa sfreccino degli aerei, che debba correre a cercare riparo in un rifugio. I miei amici, uomini e donne, sia quelli partiti che quelli rimasti, piangono da settimane. Non so perché ma io non piango. È come se dentro di me si accumulasse qualcosa che non ha la possibilità di venire fuori. Coetzee è autore del bel romanzo “Aspettando i barbari”. I barbari, dei quali il protagonista era in attesa nella fortezza, sono giunti dall’interno.
Siamo testimoni dell’arrivo dei tempi di una nuova barbarie. Per i barbari l’altro non è che una preda. Carne e risorse. Capelli. Pelle. Teschi. Schiavitù. Talvolta barbari particolarmente sofisticati con la pelle creavano degli abat-jour, con i teschi delle coppe, con i capelli l’imbottitura di cuscini. I barbari vanno all’ufficio postale per inviare il loro bottino di guerra a casa. All’interno dei pacchi ci sono capelli, teschi, pelle, unghie smaltate di rosso. I barbari si affaccendano laboriosi, sono sicuri di se. La guerra imbarbarisce in fretta, e nessuna cultura è in grado di salvare dal più terribile dei crimini se è lo stato a permetterlo.
I tedeschi hanno capito qualcosa della guerra soltanto quando sono stati portati nelle fosse piene dei cadaveri dei deportati di Auschwitz e Buchenwald. E quando li hanno costretti, a mani nude, senza guanti, a seppellire quei corpi. Dopo il processo di Norimberga. Prima del ‘45 parlavano di “de ebreificazione”, del fatto che “non esiste questo paese, non esiste questo popolo” e domandavano: “cosa avete fatto quando uccidevano i tedeschi nella regione dei Sudeti…”..
Faccio un sogno strano. Sono un ragazzo in tuta mimetica al quale viene imposto di leggere un libro ad una donna ucraina che giace priva di vita dentro una bara. Sembra quasi il racconto “Vij” (racconto fantastico del 1835 di N. Gogol’. N.d.T.), ma avviene adesso, in questa guerra. Non riesco a leggere, le righe si confondono, non riesco neppure a guardare la giovane donna. Borbotto qualcosa. Le unghie della ragazza sono smaltate di rosso.
In Russia la cultura è sempre nonostante, in antitesi, contro lo stato. Talvolta con i soldi dello stato, ma lo stesso non in nome né in favore di esso. In Russia stato e politica uccidono e dividono. Distruggono le famiglie. Spezzano le vite. La cultura salva e raccoglie ciò che di umano è ancora rimasto nelle persone. La Russia ha avuto molti stati, e tutti erano dotati di una natura antropofaga. Quei rari periodi in cui il potere in Russia non si è cibato delle persone vengono definiti anni del disgelo. Il potere semplicemente si riposava. Per poter di nuovo riprendere a divorare le persone.
La cultura parla sempre di ciò che al potere non interessa. Parla di pietà per le persone cadute. Parla di compassione. Parla degli abissi e delle vette dell’animo umano. Parla di disperazione. Parla di solitudine. Parla di questi ridicoli, piccoli, infimi, inutili, irrilevanti esseri umani. Parla di minoranza. Per questo la cultura russa era pressoché poco presa in considerazione e poco amata da chi stava al potere. I suoi rappresentanti erano costretti a studiarla a scuola. Leggevano questi libri privi di interesse. Guardano questi film astrusi. Ascoltavano questa strana musica. Alzavano le spalle. Ma lèggevano, guardavano, ascoltavano, perché non c’era altro. Non c’era nulla di notevole e autentico sul potere, che “viene dal Signore”, sul “possiamo ripetere”, sull’orgoglio e la grandezza dell’impero. Per essere più precisi, talvolta lo stato commissionava lavori con contenuti del genere e costringeva a scrivere, girare, cantare e declamare. A leggere, guardare, ascoltare. E quasi sempre il risultato era una merda.
La ragazza morta si alza dalla bara. Si avvicina a me che continuo a borbottare. Io non alzo gli occhi. Non guardo. Lei si avvicina, vuole guardarmi negli occhi. Io li nascondo nelle lettere dell’alfabeto russo. Ad un tratto mi dice: “Taci”. Non posso non leggere e continuo a borbottare qualcosa in russo. Lei dice ad alta voce: “Taci. Sta zitto! Fa silenzio.” Per lo spavento mi azzittisco. Ma non riesco ad alzare gli occhi. Lei mi dice: “Guardami”.
I soldati del mio paese sono entrati in un paese straniero e hanno iniziato a distruggerlo. A uccidere le persone. Ad abbattere le case. Dall’Ucraina in Russia giungono bare ed elettrodomestici rubati, rientrano persone storpie e odio. Queste bombe di odio di ritorno, la cui potenza è di molte volte superiore a quella di Hiroshima, riducono in brandelli la vita del mio paese. Minano il futuro di ogni persona, di ogni famiglia. Questo odio spazzerà le speranze di benessere e libertà. Ci attende una vita nella paura e nell’odio, attende noi, testimoni, partecipanti e vittime di questa guerra. Anche se siamo contro di essa.
Lo stato inizia le guerre per aumentare il numero dei propri “santi”, ad esso interessano i modelli da imitare e apocrifi avvincenti. A nessuno importa dei soldati morti abbandonati nei campi, dei civili giustiziati, gettati lungo il ciglio delle strade: non sono che rottami, rovinano la statistica dei trionfi, non esistono. A questi morti abbandonati pensa l’arte. L’arte pensa alle loro ultime parole, ai loro sogni, ai loro figli mai nati. I morti senza sepoltura sono i protagonisti della letteratura odierna, del cinema autentico, del teatro vero.
Rimango in silenzio. La bella giovane donna ucraina morta è in silenzio. Pausa. Mi guarda. Io guardo le sue mani dalla manicure di un rosso squillante. Voglio tracciare con un gesso un cerchio per proteggermi. Lei bisbiglia: “Non serve a nulla, ragazzo. Non ti servirà”. Lo so che non sarà di aiuto. Ma voglio spezzare l’angoscia che mi sta straziando. Almeno con lo stridio di un gesso. Almeno con un battito del cuore. Tutto attorno a me come di proposito tace.
Chi inizia una guerra è sempre perdente. Chi violenta, uccide, tortura la popolazione civile è un criminale di guerra. Chi li giustifica lo è altrettanto. Non è possibile avere sentimenti di comprensione per sadici e assassini. Io provo compassione per chi si è involontariamente trovato coinvolto nel terribile crimine della guerra. Per chi non si è macchiato le mani del sangue degli innocenti.
Mi torna alla mente un racconto di Oleg Tabakov (celebre attore russo N.d.T.) nel quale lui raccontava di come sua nonna lo costrinse a portare il pane ai prigionieri tedeschi, che dopo la guerra venivano fatti passare per Saratov. “Ma sono nostri nemici’”, esclamò indignato il piccolo Oleg. “Sono persone. Stanno soffrendo, adesso”, gli disse la nonna. Il piccolo Oleg diede il pane a un giovane tedesco, tutto lacero, che scoppiò in lacrime. Tabakov serbò per tutta la vita questo episodio nella memoria e me lo raccontò.
Mi atterisce immaginare che cosa avviene nella coscienza di un soldato che contro la propria volontà si trova in un paese straniero e deve obbedire all’ordine “Uccidi!” soltanto per essere “lasciato in pace”. Mi terrorizza immaginare i genitori, che dapprima hanno sostenuto “l’operazione militare speciale”, e poi hanno ricevuto una comunicazione con la menzognera notizia della morte del loro figlio “a causa di una disgrazia”. Mi fa paura e soffro per loro. Mi riempie di sgomento chi è inebetito dalla propaganda. Prima o poi queste persone capiranno dove si sono trovate. Non posso voltare loro le spalle, abbandonare chi è stato ingannato, ucciso e dannato.
La donna di Bucha prima della guerra seguiva un corso di manicure on-line. Ecco perché ha lo smalto rosso. Poi sono venute delle persone dal mio paese, quelle che parlano con me nella stessa lingua, e l’hanno uccisa. Forse questo colore è sembrato loro troppo provocante.
Tengo in mano un libro, scritto in russo. Le lettere sono morte. Le labbra sono secche. La giovane ragazza ucraina morta sta in piedi di fronte a me e mi prega: “Guardami, ragazzo. Guardami”. Io penso: “Non posso, non posso”. “Lo devi fare, ragazzo. Devi farlo”. Rimango in silenzio, non so cosa fare. Mi sussurra: “Vedi?”. Rispondo: “No”. Lei si mette a ridere: “Guarda, non avere paura!”. Le dico mormorando: “Allora mi sollevi le palpebre”. Qualcuno mi solleva le palpebre e mi costringe a guardare. Ho paura, ma guardo. Io guardo. Vedo la guerra.”
Kirill Serebrennikov Traduzione di Olga Strada