di Vito Mancuso

Le armi. Cosa pensare delle armi? Sono il male assoluto che incrementa la morte e toglie risorse alle necessità vitali? Sono uno strumento neutro il cui valore dipende dall’uso che se ne fa? Sono tecnologia e persino bellezza? Sono un male necessario? Sono l’espressione della sinistra dialettica che da un lato alimenta il pericolo della distruzione totale ma dall’altro garantisce la sicurezza in questo mondo sempre più armato? Papa Francesco non ha dubbi: «Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia!», così il 24 marzo. Tra questi Stati c’è l’Italia, il cui premier Mario Draghi ha dichiarato l’intenzione di rispettare gli impegni presi dal nostro Paese e di far salire la spesa per la difesa al 2 per cento del Pil. E lui il pazzo? E coloro che lo sostengono? Oppure si tratta solo di responsabilità?

La risposta dipende da cosa pensiamo di noi, del mondo, del modo di abitarlo e di conseguenza anche delle armi. Per affrontare la questione vorrei anzitutto far notare che dal 24 febbraio scorso anche le nostre menti sono entrate in guerra e ognuno di noi si è messo ad armare la propria: ascoltiamo esperti alla radio o in tv, scorriamo post e tweet, leggiamo giornali e riviste di riferimento, mirando così ad acquisire munizioni cognitive per bombardare con le nostre parole le postazioni avversarie. Sia chi sostiene la legittimità della guerra difensiva, sia chi l’ingiustizia di ogni guerra; sia chi è d’accordo nell’aiutare gli ucraini militarmente, sia chi ritiene che dare loro armi significhi solo esporli ulteriormente al massacro e fare gli interessi della lobby dell’industria bellica, il fatto è che da giorni usiamo i pensieri e le parole come armi. In realtà lo facciamo da sempre. In realtà non siamo mai equidistanti, o semplicemente equi, e con questa nostra polemica riveliamo nel modo più evidente che «Polemos è padre di tutte le cose», come svelò l’antico filosofo. Le nostre polemiche sulla guerra ucraina ci mostrano che non solo noi siamo permanentemente in guerra, ma che noi «siamo guerra», tutti figli di Polemos, compresi coloro che si dichiarano pacifisti e che a volte risultano più aggressivi di chi, senza essere pacifista, si accontenterebbe più modestamente di riuscire a essere pacifico. Per questo le armi hanno accompagnato da sempre il nostro cammino su questo pianeta, a partire dalle selci lavorate a freccia della preistoria. Sono una componente strutturale della Storia, non esiste popolo o civiltà che non le abbia avute e usate, e l’intreccio tra armi, religioni, mitologia, letteratura, arte, economia, è così stretto da risultare insolubile e da proporre il medesimo ambiguo messaggio il cui nome è “umanità”. Ne viene che volere l’abolizione delle armi e lo smantellamento degli eserciti significa voler uscire dalla Storia. E dove si va uscendo dalla Storia? Si va in un luogo che non c’è chiamato Utopia, letteralmente, appunto, Non-luogo. Ma attenzione. L’opera più celebre al riguardo è il saggio intitolato proprio Utopia di Tommaso Moro (nella foto), scritto nel 1516 quando era «vicesceriffo della nobile città di Londra», come recita il frontespizio della prima edizione a stampa. Moro è un santo della Chiesa cattolica, nominato “patrono dei governanti” da Giovanni Paolo II e prima ancora «martire» da Pio XI in quanto da Lord Cancelliere d’Inghilterra si rifiutò di prestare giuramento all’Atto di supremazia sulla Chiesa inglese voluto da Enrico VIII, così che il Re lo fece imprigionare nella torre di Londra per più di un anno e il 6 luglio 1535, visto che non si era piegato, decapitare.

Questo grande uomo, dal carattere gioviale e che tra vita e libertà scelse quest’ultima preferendo morire piuttosto che tradire i propri ideali, nella sua opera immagina un’isola dove vive una società ideale. E come tratta l’argomento della guerra e di conseguenza delle armi e degli eserciti? Li abolisce tutti con un volo del pensiero condannandoli come abominio e pazzia? Nulla sarebbe stato più semplice, ma il pensiero di Moro fu un altro: condannò fermamente la guerra offensiva, prese atto della necessità della guerra difensiva. Ecco le sue parole (il cui soggetto sono gli abitanti di Utopia): «Considerano la guerra cosa assolutamente belluina – anche se nessuna specie di belve ricorre a essa quanto l’uomo – e, al contrario di quasi tutti gli altri popoli, nulla ritengono così inglorioso come la gloria conquistata in guerra. Per questo, anche se con assiduità si addestrano in giorni stabiliti, e non soltanto gli uomini, ma anche le donne, per non essere impreparati a combattere quando ce ne sia necessità, una guerra non la intraprendono senza serie ragioni, ma soltanto per difendere il loro territorio, oppure per respingere dei nemici che abbiano invaso le terre di popoli amici, oppure ancora per liberare – con le loro forze e spinti dal senso di umanità – dalla schiavitù e dalla tirannide qualche popolo del quale hanno compassione proprio perché dalla tirannide è oppresso» (Utopia, libro II, Il Margine 2015, p. 165). Qui Moro afferma tre cose: 1) condanna senza mezzi termini la guerra di conquista; 2) sostiene la necessità della guerra difensiva; 3) dichiara l’opportunità di aiutare militarmente i popoli amici e quelli oppressi dalla tirannide. Sembra di leggere la nostra Costituzione che «ripudia» la guerra (art. 11) ma al contempo considera «sacro dovere» la difesa della Patria (art. 52) . E come ci si difende senza le armi? A distanza di poco meno di un secolo, nel 1602, Tommaso Campanella, frate domenicano e filosofo, anch’egli perseguitato dal potere (in questo caso dall’Inquisizione cattolica che lo incarcerò per quasi trent’anni sottoponendolo più volte a tortura), scrisse un’opera simile, La Città del Sole, in cui, immaginando a sua volta la società ideale, giunse sulla guerra agli stessi risultati di Moro: «Gli uomini e le donne vestono d’un modo atto a guerreggiare, benché le donne hanno la sopraveste fin sotto al ginocchio, e l’uomini sopra»; e più avanti: «Comune a tutti è l’arte militare, l’agricoltura e la pastorale; ch’ognuno è obbligato a saperle, e queste son le più nobili tra loro» (dall’ed. Feltrinelli 1992, pp. 40 e 57). L’insegnamento di Moro e di Campanella (e di molti altri che prefigurarono lo stato ideale, a partire da Platone) è che nello sforzo di ricercare la pace e l’armonia sopra ogni altra cosa non si può evitare di fare i conti con la realtà e con il male che essa purtroppo contiene, se si vuole essere responsabili. Che fare quindi della Utopia? Abbandonarla, rassegnarsi alla Realpolitik, e alla ancora più reale «Economic»? No, e per questo ricordo le seguenti parole di Oscar Wilde:«”Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione» (L’anima dell’uomo sotto il socialismo, in Opere, Mondadori 1979, p. 1177). Come non preferire un ospedale a un missile? Una scuola a una bomba al fosforo? Come non desiderare di destinare le spese per le armi a sfamare e a scolarizzare il mondo? Come non essere d’accordo con il Papa per il quale «la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali»?

Dobbiamo tendere con tutto noi stessi a questa «altra impostazione», il Papa fa bene a ricordarlo con forza. Ma nel frattempo? Nel frattempo, fanno altrettanto bene i governi occidentali a prendere atto della realtà e a rendersi all’altezza del loro dovere di garantire la sicurezza dei cittadini. È così che progredisce la società: conciliando la tensione verso l’Utopia e il rispetto della Realtà. Chi non ha un’Utopia verso cui veleggiare tradisce l’umanità e la sua sete di bene e di vita; insieme però la tradisce anche chi non tiene conto delle sue condizioni reali e del suo bisogno di sicurezza. Tommaso Moro e Tommaso Campanella, che pagarono di persona la fedeltà ai loro ideali, non ritennero di poter abolire le armi e gli eserciti neppure immaginando la società ideale. Essi ci insegnano ancora oggi che la spesa per migliorare la nostra difesa non è una «pazzia» ma una dolorosa, nonché doverosa, necessità. Con una decisiva postilla, però: visto che le armi odierne (chimiche, biologiche, atomiche) possono distruggerci infinite volte, è necessario, per evitare l’autodistruzione, che i governi compiano un investimento ancora più importante riservando all’educazione della coscienza il doppio di quanto investono per le armi. Solo così, forse, possiamo vedere in fondo al tunnel la luce.

Fonte: La Stampa

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