di Giorgio Ferrari
I mercenari della Wagner — la rinomata agenzia di contractors russi senza insegne e senza nome che hanno fatto la loro prima comparsa in Crimea nel 2014 e successivamente si sono visti in Siria, in Etiopia e soprattutto in Libia — lo stanno braccando da giorni. Ma Volodymyr Zelensky è finora riuscito a mettersi in salvo prima che gli “omini verdi” e le forze speciali cecene —una sorta di Brigata Gurka dai modi spietati che per antonomasia non fa mai prigionieri — potessero eliminarlo. Pura fortuna? Certamente no. Troppe coincidenze, nonostante l’eccellente copertura del suo apparato di sicurezza che solo due giorni ha fa eliminato un commando ceceno nel cuore di Kiev. E nemmeno troppo convincente è l’ipotesi ventilata a Londra che il presidente ucraino sia stato tempestivamente informato dei possibili attentati da membri dissidenti del Gru (il servizio di intelligence delle forze armate fondato da Lenin).
Resta il fatto che finora il presidente è sempre stato un passo avanti rispetto a chi gli dà la caccia. Così come troppo puntuale e mediaticamente efficace è il rapporto di Zelensky con i leader di tutto il mondo tramite i social network e la televisione, quasi vi fosse un’accurata e sapiente regia mediatica dei suoi interventi e delle sue parole. Zelensky ha un grande amico dietro le quinte della guerra. Un amico silenzioso e finora poco esposto, in grado però di accudirlo, informarlo e nei limiti del possibile di proteggerlo. Inutile nascondersi dietro un dito: per scovarlo basta avere un assaggio dei malumori che si respirano aWashington. Perché questa volta non è l’«amico americano» del film di Wim Wenders a spalleggiare Zelensky, ma quello israeliano. Come Naftali Bennett, premier in carica da meno di un anno, ex maggiore della Sayeret Matkal (le forze speciali dell’esercito israeliano) e leader della Nuova Destra.
II cui prolungato riserbo attorno alla tragedia che si sta svolgendo in Ucraina oltre ad irritare la Casa Bianca («Ma da che parte stanno a Gerusalemme? — si chiedono ripetutamente—: tutti noi stiamo fornendo armi, Israele soltanto medicine e kit di sopravvivenza») lascia intravvedere due cose: la non sopita ambizione di Bennett di porsi come mediatore del conflitto (ripetuti colloqui telefonici con Putin regolarmente seguiti da quelli con Zelensky, che già all’inizio dell’invasione gli aveva chiesto di assumersi tale compito e che ieri si sono concretizzati con una visita a sorpresa al Cremlino a Putin, durante lo shabbat) e insieme la difficoltà di conciliare le due sponde del mondo ebraico, quella russa e quella ucraina, due comunità che Bennett è chiamato a tutelare e che in questo momento appartengono a due Paesi in guerra. Cui si affianca la folta comunità ebraica americana, che per un terzo abbondante approvò le scelte di Trump — compresa la mai celata simpatia per la Russia di Putin — e tuttora considera poco convincenti le scelte di Joe Biden.
Né dobbiamo scordarci il delicato equilibrio fra Israele e la Russia nel quadrante mediorientale: Mosca sorveglia i cieli siriani, ma lascia che l’aviazione di Israele intervenga violando lo spazio aereo di Damasco nelle operazioni contro gli hezbollah e i pasdaran iraniani. Ma il vero obbiettivo dell’«amico israeliano» non è solo quello di proteggere Zelensky e non inimicarsi la Russia. In realtà Israele guarda alla Cina. Attenta a certe sue caute ma significative ammissioni. Come le recenti parole dell’ambasciatore di Pechino all’Onu Zhang Jun: «La situazione si è evoluta a un punto che la Cina non desidera vedere. Non è nell’interesse di nessuna delle parti». Sotto traccia, nella Città Proibita ci si domanda se sia ancora saggio mantenere quell’appoggio incondizionato a Mosca del quale Putin si fa vanto. Nessuno finora si espone. Ma Pechino sta lentamente frenando. La follia di Putin, che comunque vadano le cose d’ora in poi sarà un leader bandito dalla comunità internazionale, alla Cina non conviene. E nemmeno a Israele.
Fonte: Avvenire