di Camillo Bosco
Dall’ 11 al 14 novembre di quest’anno si è tenuto a Praga il World Uyghur Congress, nel corso del quale la richiesta è stata unica e pressante: non dimenticateci. Sono ormai diversi anni che le maglie della repressione cinese si sono strette nella provincia del Xinjiang, istituendo campi di rieducazione in pieno stile totalitario. Incarcerazioni di massa su profilazioni etnico religiose che, seppur non avendo l’obiettivo dell’eliminazione fisica degli 11 milioni di uiguri residenti nella provincia, hanno invece la chiara missione di modificare un’intera cultura, rimodulandola in un versione confacente alla politica di Pechino.
Per comprendere quello che accade nel Turkestan orientale — antica denominazione della regione, ora proibita per legge — bisogna infatti sapere cos’è l’etnia Han, in assoluto prevalente (95%) nella società cinese: centinaia di milioni di persone che esprimono la classe dirigente che ha fatto grande il Regno di Mezzo. I loro interessi sono la vera chiave di volta di tutta la politica cinese: persino il cosiddetto mandarino in realtà andrebbe definito come “lingua parlata dagli Han”. In questa era di comunismo confuciano, i concetti di Tao e di comunità si uniscono in un abbraccio mortale per la libertà degli individui: il benessere della maggioranza deve imporsi come prioritario sui singoli e sulle minoranze. Qualsiasi deviazione dall’ortodossia deve essere raddrizzata severamente. Lo sanno bene i cristiani cinesi, costretti a subire la nomina di vescovi bollinati dalla burocrazia secolare, o i seguaci del Falun Gong vittime di incarcerazioni arbitrarie e (almeno fino a pochi anni fa) di una campagna sistematica di espianti di organi per il ricco mercato cinese dei trapianti.
Persino i plutocrati delle tech giant cinesi sono diventati una minoranza da rieducare, reclusi in domicili forzati e spogliati della loro libertà d’impresa: i loro immensi capitali, serviti a rendere la Cina competitiva a livello mondiale, li hanno semmai trasformati in bersagli. Cosa succede quindi agli uiguri, minoranza musulmana della grande Cina? Pagano il prezzo di essere etnicamente turchi e fieri del loro retaggio. Simpatizzare con loro non vuol dire dimenticare i gravi incidenti di Urümqi nel 2009 (dove furono uccisi 137 coloni Han) o di Kunming nel 2014; significa semmai denunciare come le campagne di rieducazione forzata in campi di segregazione, di imposizione di condizioni di lavoro semi schiavistiche, di sostituzione etnica, di sorveglianza di massa e di sterilizzazione forzata delle donne evochino i peggiori anni della civiltà europea.
Al congresso dello scorso novembre ricercatori come Adrian Zenz hanno sottolineato l’incredibile quantità di prove raccolte che testimoniano come questi atroci crimini siano perpetrati sistematicamente da Pechino. Anche la Cnn ha recentemente intervistato un ex carceriere dei centri di rieducazione disgustato dalle violenze fisiche, psicologiche e sessuali inflitte dalla repressione voluta dal regime comunista. Nelle tre ore del bilaterale Biden-Xi di questo stesso novembre non si è fatto cenno alla questione, probabilmente perché tra guerra commerciale, crisi afghana, status di Taiwan e altre priorità il menu diplomatico era già abbastanza pieno; ma è essenziale che la tragedia uigura rimanga tra le priorità dell’agenda internazionale e che si decida di esercitare su Pechino la massima pressione possibile, prima che il danno sia irreparabile.
Fonte: La Ragione