di Anais Ginori
“Quello che ho fatto per questo libro, forse non lo rifarò mai più”. Dalle rovine di Mogadiscio, al fango ghiacciato delle trincee ucraine, alla savana della Nigeria in fiamme, Bernard-Henri Lévy ha deciso di continuare a viaggiare e testimoniare nell’anno della Grande Paura, nonostante lockdown, quarantene e frontiere chiuse, con una serie di reportage apparsi su Repubblica e ora raccolti in Sulla strada degli uomini senza nome, tradotto da La nave di Teseo. A settantadue anni, il filosofo ha deciso di non piegarsi al diktat “restate a casa” e di andare da quelle persone che un tetto non ce l’hanno mai avuto o chi, come i migranti di Lesbos, non hanno di che lavarsi le mani. Lévy riconosce che il libro, accompagnato da un travel movie presentato alla Festa del Cinema di Roma, è ” una prima incursione nella temibile arte dell’autobiografia”.
Perché adesso? “È stato un anno così folle, con una sorta di accanimento metodico che mi ha portato in luoghi terribilmente inospitali. Quindi mi sembrava il momento giusto per spiegare il mio rapporto con la morte, la vita, l’impegno”.
La paura è assente o è invece una compagna discreta? “Ovviamente quando arrivo a Mogadiscio e lì non c’è un giornalista da anni, o quando sono sotto il fuoco di un’imboscata in Libia, non posso dire di non aver paura. Ma non è il sentimento dominante. La paura di non essere all’altezza, di non fare il mio dovere, di non testimoniare correttamente, è più grande della paura fisica”.
I suoi famigliari si sono ormai abituati? “Sono abituati e sono preoccupati, ma è così che funziono e lo sanno. Mi sono sempre messo in pericolo in ogni modo possibile. Che senso ha vivere se non si mette in gioco qualcosa di essenziale? Quindi affrontare la morte, sconfiggerla, dire a se stessi che non è quello l’appuntamento”.
Suo padre André Lévy si impegnò nella difesa dei repubblicani in Spagna e poi nella battaglia di Montecassino. Si capisce nel libro che è una figura essenziale. “Nei miei reportage più pericolosi ho sempre tenuto a mente le parole della citation au feu che mio padre ricevette la sera della battaglia di Montecassino. Sono registrate nel suo libretto militare, che ho devotamente conservato. E mi ispirano. Mio padre era una figura eroica. Lo ammiravo e lo amavo”.
Un padre eroico può diventare un peso? “Non per me. L’ho sentito come un invito all’eccellenza, a non essere mai soddisfatto della vita per come viene data”.
Nel 1971, a ventitré anni, ha lasciato una brillante carriera accademica all’École Normale ed è partito per sostenere l’indipendenza del Bangladesh. L’inizio di tutto? “C’era un grande scrittore, André Malraux, che aveva lanciato un appello per la formazione delle Brigate Internazionali per il Bangladesh, uno dei luoghi più poveri del mondo. Ero tra le poche decine di francesi che hanno risposto. Sono stato davvero felice di fuggire da un destino già tracciato, che mi stava uccidendo in anticipo”.
I suoi genitori hanno accettato questa scelta? “Mio padre era combattuto. Come quando, vent’anni dopo, avevo deciso di andare a girare un film sull’assedio di Sarajevo. Venendo a sapere della mia intenzione mi disse quattro cose. Primo: ti proibisco di farlo. Secondo: so che non ne terrai conto. Terzo: al tuo posto avrei fatto lo stesso. Quarto: visto che stai per rinchiuderti in quel luogo d’inferno e orrore, tanto vale che tu lo faccia nelle migliori condizioni possibili. E così, con il suo amico François Pinault, ha fondato una società di produzione che mi ha permesso di realizzare, rapidamente e bene, il mio primo film di testimonianza e di impegno”.
Questo libro è anche un racconto letterario sull’impegno politico. “Posso essere un filosofo, aver letto molti libri, ma il meccanismo è semplice e comune a tutti. È un riflesso istintivo di fronte a una situazione di profonda ingiustizia. L’atteggiamento di coloro che, nell’Europa di oggi, dicono: “Chiudiamo le frontiere, le porte e gli occhi” è orribile. Io sono l’opposto”.
E quando le dicono: c’è tanta miseria dietro l’angolo, perché andare dall’altra parte del mondo? “Bisogna fare entrambe le cose, ovviamente. Ma dietro l’angolo ci sono quasi sempre grandi persone che sono già lì e lavorano. Dall’altra parte del mondo, spesso, non c’è nessuno”.
Lei elogia una generazione “luminosa” che ha portato questa visione internazionalista, universalista. “Una generazione luminosa perché è stata guidata dalla lotta contro la tentazione egoista che tutti portiamo dentro. Deve sembrare strano ai contemporanei della generazione Instagram e Salvini, a quelli che si sentono sovrani in se stessi e chiusi agli altri: la nostra parola d’ordine era guerra all’egoismo”.
Nel suo pantheon ci sono anche intellettuali avventurieri come Lawrence d’Arabia, Lord Byron. “Sono figure che mi hanno affascinato fin da piccolo. C’è anche Pasolini, che vediamo apparire nel film. Sono uomini di pensiero e di azione. E anche dei poeti. Tutto questo, per me, va di pari passo”.
Si sente mai frustrato di non riuscire a fare abbastanza? “Non si fa mai abbastanza, ma quando convinco il Presidente del mio paese a sposare la causa dei curdi o ad essere in prima linea nella resistenza anti-Putin, sento che non ho testimoniato per nulla. E così anche in Libia”.
Sono queste incursioni nella diplomazia internazionale che criticano i suoi detrattori. “Sono ancora come quando avevo diciotto anni. Penso che il mondo debba essere cambiato e che si debba fare di tutto per contribuirvi quando si ha la libertà e l’energia”.
Per un intellettuale che vuole rimanere libero come si affronta la vicinanza al potere? “È una relazione strumentale, ma chiara. Naturalmente, non ho intenzione di scambiare il mio voto con il sostegno ai curdi. Ma uso il rapporto con le persone di potere per aiutare le cause che mi stanno a cuore. C’è una scena nel film in cui mostro il presidente Macron che parla con il leader della resistenza curda siriana in un bunker assediato dai droni di Erdogan. Sono momenti come questi che mi rendono orgoglioso e felice di essere un intellettuale impegnato”.
La missione in Bangladesh è tra i suoi maggiori successi? “Quando ritrovo questi giovani compagni dalla barba bianca che ho lasciato cinquant’anni prima ad aspettarmi sulla pista di un aeroporto dove c’è una piccola fanfara, sono sopraffatto dall’emozione. Mi dico: “Su questo non mi ero sbagliato”. Alla fine in questo mezzo secolo ho fatto molte delle cose che sognavo di fare”.
Sogni di Don Chisciotte, un’altra figura che ammira? “In effetti è come dispiegare molta energia per qualcosa che dall’esterno può sembrare poco. È l’opposto dell’uomo d’azione calcolatore. Quando mi imbarco in un’avventura, ci metto tutta la mia anima senza chiedermi se alla fine abbraccerò il vento o il nulla. Non lo so mai. E in fin dei conti non è mai nulla”.
C’è il reportage nel Panshir e l’incontro con il giovane Massud. Cosa può fare ora? “Ho parlato con lui qualche giorno fa. Farò tutto il possibile per aiutarlo. È un debito sacro che avevo contratto con suo padre più di quarant’anni fa. Intendo onorare questo debito con il figlio”.
Quale sarà il prossimo “riflesso” che la farà partire di nuovo? “Non appena il direttore di Repubblica mi proporrà di andare in un posto del mondo difficile da raggiungere, dove succedono cose terribili e non c’è nessuno, io sarò sempre pronto. Ancora una volta, non è un’avventura per il gusto dell’avventura. Ma è l’urgenza di testimoniare e di agire per una maggiore giustizia”.
Fonte: la Repubblica