di Diego Gabutti
A lungo ignorati dagli storici e dalla politica ufficiale, che rifiutavano di considerarli membri a tutti gli effetti della Resistenza, quali effettivamente erano, i militari italiani prigionieri, anzi «internati», nei lager nazisti sono stati i parenti poveri delle vittime del nazifascismo e dei perseguitati di guerra. Avevano rifiutato d’aderire alla Repubblica di Salò come di servire nei reparti SS dell’esercito tedesco. Per questo erano finiti nei lager nazisti. Per questo, come tutti gli internati, avevano sofferto fame, freddo e torture. Al pari d’ogni altro internato e prigioniero di guerra erano stati messi al muro dagli hitleriani al primo sgarro.
Venivano chiamati «internati» e non «prigionieri» per evitare a nazi e mussoliniani il fastidio di trattarli secondo le regole della Convenzione di Ginevra. A loro sarebbe bastato alzare una mano e giurare fedeltà ai mostri che li tenevano prigionieri per tornare liberi come fringuelli. Turarsi il naso e aderire. Che ci voleva? Avrebbero potuto capitolare: Berlino e Salò (cioè soltanto Berlino, visto che Salò era uno spettacolo di burattini, regia di Adolf Hitler, dialoghi di Satanasso zoccolone) non chiedevano altro, e pagavano ogni capitolazione pronta cassa in pasti caldi, libertà di movimento, un cappotto, il biglietto per l’Italia, una visita medica.
Ma non lo facevano. Erano li, dietro il filo spinato, per scelta. Una scelta pesante, coraggiosa. Eppure, nell’hit parade dell’antifascismo ufficiale figuravano come oppositori di serie B (anzi nemmeno oppositori ma oppositori involontari, oppositori per caso). Non erano veri «antifascisti». S’erano convertiti all’antifascismo per esperienza diretta: il bullismo mussoliniano spacciato per potenza militare, la rovina della nazione, l’orrore delle leggi speciali, la prepotenza tedesca, l’improntitudine del regime. Ma non era così che ci si doveva convertire all’antifascismo.
Si diventava antifascisti con la frequentazione dei giusti gruppi clandestini e studiando zelantemente i libri giusti (se non riuscivi a procurarteli, amen: lasciavi parlare gli adulti e te ne stavi al tuo posto, zitto e composto). Più che una Weltanschauung, una visione del mondo che tutti possono abbracciare o rifiutare, l’antifascismo era una condizione antropologica. Non lo diventavi ma ci nascevi (un po’ come oggi, che non si diventa di sinistra, ma si è di sinistra, antropologicamente superiori, per autoproclamazione, a chi è di destra).
Per lo più giovani e giovanissimi, educati dal fascismo, ex Balilla, ex GUF, gli internati non avevano il giusto pedigree. Molti di loro, poi, anzi quasi tutti, alla fine della guerra, una volta rientrati in patria, non fecero il passo decisivo: dal fascismo al comunismo (cioè dal fascismo nero a quello rosso). Diventarono liberali, democristiani, socialdemocratici. Restarono oppositori per caso e di serie B. Fuori dall’hit parade. Parenti poveri delle vittime del nazifascismo e dei perseguitati. Tornarono, dopo due inverni d’apocalisse in Germania, in un’Italia che aveva per presidente del consiglio Ferruccio Parri (mica per caso ribattezzato «Fessuccio») che affronta la questione degli internati «commentando che «dovevano lavorare, almeno mangiavano”».
Una lunga premessa per dire che il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri – I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945) – rende finalmente giustizia a questi dimenticati campioni della Resistenza. Non è il primo libro che i due storici dedicano alla questione degli internati militari italiani. Nel 2009, undici anni fa, è uscito da Einaudi Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti. 1943-1945 (che non ho letto e di cui non so niente, e che non riesco a procurarmi perché «non disponibile» su Amazon, anche se immagino che il libro pubblicato in questi giorni dal Mulino ne sia l’ampliamento).
Anche nel libro appena pubblicato, un libro particolarmente prezioso, la storia viene raccontata direttamente dagli internati, dalle loro lettere e dai loro diari: una storia fatta di singole storie, in cui c’è «fame da non poter respirare», ci sono orribili torture, omicidi a sangue freddo, riduzione in schiavitù. Tra i prigionieri di guerra, che oppongono un deciso e reciso «no, keine» a Duci e Führer e Padri dei popoli, c’è anche il grande Giovannino Guareschi (nella foto) che affida all’umorismo da impiccati d’un mezzo acrostico il suo istintivo antitotalitarismo:
Ingannato Malmenato Impacchettato
Internato, Malnutrito, Infamato
Invano Mi Incantarono
Inutilmente Mussolini Insistette
Fonte: Italia Oggi, 10 marzo 2020