La visita del Papa assume un triplice significato: un forte invito ai cristiani dell’Iraq a non abbandonare il loro paese, un’esortazione a ritornare rivolta a coloro che sono fuggiti e uno stimolo per le autorità locali affinché prendano coscienza della gravità della situazione

di Zouhir Louassini

Rivolgendosi ai cristiani cacciati dai terroristi di Daesh, i musulmani d’Iraq postavano sui social network le immagini delle case e delle chiese che stavano riparando. Quelle foto dicevano: “Tornate!” ai Nasara (Nazareni), “tornate a casa vostra”. L’ormai prossimo viaggio del Papa a Baghdad – in programma a partire dal 5 marzo – non potrà che riempire il cuore di gioia, a gente fatta così. Mai un viaggio papale, negli ultimi anni, ha suscitato tanto interesse.

Niente ha potuto ostacolare Francesco nel suo viaggio verso l’Iraq: né la pandemia, né la mancanza di sicurezza, né l’instabilità politica di un paese così centrale nella storia delle religioni. Andare comunque, seppur in circostanze tanto incerte, conferma l’importanza che il vescovo di Roma attribuisce a questo “pellegrinaggio” unico ed emblematico.

Non c’è un momento nell’itinerario programmato dal pontefice in cui non si veda un gesto, un messaggio, un segno verso gli iracheni e, loro tramite, verso tutta l’umanità. Saranno tre giorni intensi, tanto durerà il viaggio, curati nei minimi dettagli.

Subito dopo il suo arrivo e le cerimonie protocollari ufficiali, il Papa incontrerà vescovi, sacerdoti, religiosi, seminaristi e catechisti nella Cattedrale Siro-Cattolica di “Nostra Signora della Salvezza” a Baghdad: è quello il luogo dove 44 fedeli furono uccisi in un attacco jihadista, nell’ottobre 2010.

Vittime che fanno parte del lunghissimo elenco di morti tra tutta la popolazione irachena e che sembrò, nel caso dei cristiani, il risultato di una strategia volta a mettere in atto una vera e propria pulizia religiosa, decisa da certi circoli; l’intento era chiaro: svuotare il paese della sua popolazione cristiana.

Una strategia, va detto, premiata da un significativo successo. In pochi anni il numero dei cristiani in Iraq – una delle più antiche comunità del Medio Oriente – è infatti diminuito in misura consistente: dopo l’invasione americana del 2003, a causa degli abusi subiti da parte degli islamisti fanatici e, dopo il 2014, per via delle violenze dell’autoproclamato Stato Islamico.

Anche se non esistono cifre ufficiali, organizzazioni come AED (Aide à l’Église en Détresse), stimano che la popolazione irachena cristiana, dall’invasione americana in poi, sia diminuita di oltre il 90%, passando da un milione e mezzo di fedeli nel 2003 a meno di 150.000 nel 2019.

Di fronte a questa condizione drammatica, il viaggio del Papa assume un triplice significato: un forte invito ai cristiani dell’Iraq a non abbandonare il loro paese, un’esortazione a ritornare rivolta a coloro che sono fuggiti e uno stimolo per le autorità locali affinché prendano coscienza della gravità della situazione.

Il secondo giorno il Papa si trasferirà a Najaf, la città santa dei musulmani sciiti, per una “visita di cortesia” all’ayatollah Sayyid Ali Al-Husaymi Al-Sistani. Sarà un incontro davvero “storico”, in tutti i sensi. Nonostante i suoi novant’anni, Ali Sistani è una delle personalità più influenti della vita sociale e politica del paese, anche se non ama apparire in pubblico.

Due anni dopo aver incontrato in Egitto il grande imam di Al-Azhar, il sunnita Ahmad Al-Tayeb, Papa Francesco continua a perseguire il suo sogno di fratellanza. Lo farà incontrando una delle più grandi autorità sciite del mondo. Con la differenza sostanziale che, mentre nel mondo sunnita non esiste un clero organizzato su una precisa gerarchia, nella realtà sciita la situazione è differente.

Al-Sistani è l’alta autorità nel mondo sciita iracheno. I suoi seguaci lo considerano come il proprio “papa”. Per questa ragione l’incontro, anche se di carattere privato, avrà una risonanza globale data la sua personalità e l’influenza che ha tra gli iracheni, sunniti inclusi.

Di certo l’importanza simbolica e religiosa di questo incontro non può nasconderne le sfumature geopolitiche. Di nazionalità iraniana, l’ayatollah al-Sistani è riconosciuto per la sua indipendenza e il suo desiderio di vedere l’Iraq riconquistare la propria sovranità. Le sue relazioni con l’Iran, un paese che interferisce ampiamente negli affari iracheni, sono quindi molto difficili. La scelta di incontrare al-Sistani a Najaf può dunque essere letta come un appoggio, diretto e chiaro, da parte del Papa agli sciiti iracheni.

Per molti osservatori all’interno dello sciismo è in atto una lotta per conquistarne la leadership; una rivalità che fa riferimento a due distinte scuole di pensiero: quella di Qom, in Iran, e quella di Najaf, in Iraq.

Una fa parte dell’eredità dell’ayatollah Khomeini, salito al potere in Iran dopo la rivoluzione del 1979. Questa corrente, che governa ancora Teheran, ritiene che non debba esserci separazione tra potere temporale e potere spirituale. La posizione opposta a quella della scuola di Najaf, incarnata da Ali al-Sistani. Gli iracheni, e probabilmente anche le autorità iraniane, hanno ben capito la dimensione e il senso delle scelte del Papa in questo viaggio.

Dopo la visita a Najaf, il Papa volerà a Nassiriya, per l’incontro interreligioso presso la Piana di Ur, la terra di Abramo, figura comune e interconnessione simbolica tra giudaismo, cristianesimo e islam. Qui il messaggio recato da Roma è chiaro, soprattutto per chi crede nella possibilità di parlare direttamente con Dio: saranno tutti lì, insieme con Abramo, per chiedere la pace in una terra che soffre la guerra da più di quaranta anni.

L’ultima tappa del viaggio apostolico è fissata nella regione autonoma del Kurdistan. La sua capitale, Erbil, sarà teatro del terzo “momento-clou” del viaggio di Francesco. La metropoli, che ha conosciuto una rapida espansione demografica e urbanistica, dopo il 2014 è divenuta rifugio per decine di migliaia di persone messe in fuga dai crimini di Daesh. E anche da qui, dal Kurdistan iracheno, un messaggio di pace, neppure troppo velato, correrà immancabilmente fino alle orecchie sempre attente di Ankara.

È assai probabile che, durante il suo storico viaggio in Iraq, Papa Francesco porrà l’accento più marcato sul concetto (e la prassi) della fraternità. Nella scia della sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, ribadirà che la pace non è possibile senza il rispetto dovuto a ciascuna comunità, a ogni persona; che è possibile trovare un buon accordo tra culture e religioni differenti, nella convinzione che “le cose che abbiamo in comune sono così tante e importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli perché figli di un unico Dio”.

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