di Elena Loewenthal
Quanto ci manca la sua voce. Più che mai ora che il 27 gennaio è diventato il giorno di una memoria che va necessariamente condivisa, ma che nel farsi rituale di commemorazione corre talora il rischio di uno svuotamento di senso viziato dalla monotonia della ripetizione. Quanto ci manca, quella sua voce così limpida, pacata e profonda da riuscire ad arrivare sempre, sempre al cuore delle cose.
C’è qualcosa di unico e necessario, nella voce di Primo Levi (nella foto): quando racconta di Auschwitz, quando si fa poesia, quando lascia parlare la fantasia. Ogni sua parola è carica di una sapienza che si costruisce nella continua osmosi fra emozioni ed esperienza di vita. Perché Primo Levi non è, non è stato solo un testimone, ma un grande scrittore a tutto tondo, un uomo capace di esprimere la vocazione letteraria, quella di scienziato – anzi, di chimico – e intellettuale.
Non c’è una sua sola parola che non sia necessaria per tutti noi, dai grandi romanzi sull’universo concentrazionario e la guerra alla poesia che scaturisce da una mattina nebbiosa, dalla riflessione fondamentale sulla zona grigia all’ironia empatica che spesso abita nei suoi racconti. Ascoltare Primo Levi significa confrontarsi con la ricchezza della sua produzione letteraria e artistica, con quella sua straordinaria curiosità, quella pacata passione che ogni sua pagina esprime. Per questo è importante, anzi necessario «riscoprirlo» proprio nella stagione della memoria: perché bisogna sempre fare i conti con la complessità del mondo e dell’umano. Mai arrendersi al bianco e nero, all’assenza di sfumature e contraddizioni.
E se da molti anni ormai il Giorno della Memoria è occasione di eventi, incontri, scoperte editoriali, Primo Levi deve tornare ad essere il canone del nostro sguardo verso quel passato, la guida per conciliare per un verso l’irrimediabile incomprensibilità e per l’altro la conoscenza necessaria di quell’abisso nero che è stata la Shoah. «Io so cosa vuol dire non tornare», comincia così la poesia Il tramonto di Fossoli, che Levi scrisse il 7 febbraio del 1946. Lui che «a traverso il filo spinato» vide «il sole scendere e morire» allude, si, con delicata nitidezza a uno sconforto indicibile.
Ma ci dice oggi anche un’altra cosa, tanto vera quanto difficile da accettare: tutti dobbiamo sapere che cosa vuol dire non tornare. Non tornare significa fare propria quella memoria, comprendere che essa non è lo scomodo, intollerabile fardello dei testimoni che il tempo ci sta portando via, bensì un portato della nostra storia. Ci riguarda tutti e da vicino, oggi come domani, perché la Shoah fa parte della storia europea e italiana, non tanto e non solo degli ebrei e delle vittime dello sterminio programmato.
E se a volte è stato comodo relegare la commemorazione al ruolo di atto simbolico di omaggio a quelle vittime, nel racconto dell’esperienza estrema, nella riflessione, nell’arte della parola Primo Levi ci insegna a riappropriarci di quella storia: «Io so cosa vuol dire non tornare» deve significare che tutti noi non siamo mai più tornati di laggiù, che soltanto riconoscendo come nostra quell’esperienza, grazie alla sua voce, possiamo provare a fare in modo che non accada di nuovo.
Fonte: La Stampa