di Bernard-Henri Lévy
Sta andando tutto troppo in fretta. La diffusione del virus. Ma anche la circolazione dell’altro virus, quello delle informazioni a ciclo continuo e dei social network che vanno in loop. In questo clima, in questi ultimi giorni di marzo, è quasi tutto quello che sappiamo. Dobbiamo abbandonare l’idea di una relazione di causa ed effetto tra la globalizzazione e l’epidemia. Possiamo vedere come questa idea rafforzi i riflessi xenofobi: oggi è il «virus cinese»; domani la diffidenza verso gli «stranieri» e i «migranti» a proposito dei quali ci si dovrebbe chiedere in quale «casa» si andranno a confinare. Vediamo anche come finisca per alimentare il clima da Quaresima globale che è diventata la tendenza del momento: «Troppo godimento; troppa prosperità; il pianeta globalizzato era in uno stato di surriscaldamento che solo una buona epidemia vecchio stile poteva raffreddare».
Ma il punto è che questa idea è falsa. Non c’era alcuna globalizzazione quando la Morte Nera, partita da Genova e da Marsiglia, spazzò via un terzo della popolazione dell’Europa. Non c’era la globalizzazione durante la difterite dei secoli XVI e XVII. E men che meno quando ebbe inizio la prima epidemia documentata: siamo nel 412 a.C., a Perinto, in Tracia; è il momento in cui la lingua greca inventa, se non la cosa, almeno la parola (epidemos, letteralmente «sul popolo», la prima calamità che, contrariamente all’idea biblica di una «peste» che colpisce i «primogeniti», ricade su tutto il popolo, senza distinzioni di età, rango o eccellenza); Ippocrate, che è lì, racconta che il male inizia con una tosse secca, seguita da forti vampate di calore e poi da soffocamento; e questa epidemia, dice, distrugge quasi completamente la città.
La seconda cosa è che nulla è realmente cambiato, duemilacinquecento anni dopo, nel modo in cui una società cerca di tutelarsi contro un nuovo virus. Ippocrate, infatti, nella sua relazione sull’episodio della «tosse di Périnto», elenca una serie di «gesti di protezione» che assomigliano anzi appaiono gli stessi di quelli degli epidemiologi di oggi. Boccaccio nel Décamerone, spiega che l’unico modo per affrontare la «mortifera pestilenza» è quello di «chiudersi» e «trincerarsi»; smettere di «visitarsi a vicenda con i parenti»; fare in modo che «i cittadini si evitino» (che evitino, quindi, i loro doveri civili? che annullino per esempio, a causa dell’epidemia, un’elezione comunale? e questo forte spirito che continua a «divertirsi», «cantare e andare in giro» e «ridere e scherzare su ciò che sta accadendo» non è forse l’immagine sputata dell’imbecille che trova «eroico» «infrangere le regole» e che ha appena insolentito un ministro?). E per quanto riguarda le grandi epidemie della peste, hanno prodotto questo «grande contenimento» analizzato da Michel Foucault e che, in inglese, si traduce come per caso in «grande confinamento».
La differenza, ovviamente, è che la medicina di oggi non è più quella di Ippocrate, Galeno e Avicenna. E c’è una buona possibilità che la ricerca globalizzata possa trovare la cura e il vaccino in pochissimo tempo. Ma, nel frattempo, siamo qui. Non siamo più progrediti, quando la natura ci sfida con un nuovo virus, rispetto ai contemporanei del Boccaccio. E questo arcaismo dei nostri sistemi di difesa ha qualcosa, quando ci si pensi, di profondamente tragico. E poi un’ultima cosa: l’illusione di un mondo dopo il virus che ricomincerebbe «come prima». I filosofi della medicina hanno reso giustizia a questa immagine di una malattia vista come un attacco che mette alla prova un corpo sano e lo restituisce, una volta respinto, alla sua ritrovata salute. E, poiché è tempo di consigli di lettura, raccomando, su questo argomento, i libri di Georges Canguilhem, questo maestro che decostruisce le filosofie sostanziali della malattia e stabilisce che un corpo, individuale o collettivo che sia, esce sempre segnato e, alla fine, trasformato dal passaggio di un nuovo virus.
Concretamente, lo choc delle grandi epidemie non fu un fattore di poco conto nel declino del miracolo democratico greco. Il mondo guarito delle piaghe dell’età classica eredita non solo l’Ospedale generale, ma un modello disciplinare da cui le fabbriche e le prigioni saranno a lungo ispirate. L’influenza spagnola lascia in eredità al mondo che le è sopravvissuto, l’un per l’altro: l’apartheid in Sudafrica; il gusto per lo sport e la vita all’aria aperta; la necessità di ospedali degni di questo nome; per non parlare, tra gli scrittori, della malinconia peculiare di coloro che sopravvissero: Francis Scott Fitzgerald, Nancy Cunard o il Dashiell Hammet del Falco maltese. Quindi il coronavirus in tutto questo? Ancora troppo presto per dirlo. Ma è una scommessa già vinta che il mondo di domani non sarà, nel bene e nel male, lo stesso di ieri. Nel male: una Cina che avrà l’occasione di impartirci lezioni sulla gestione delle crisi sanitarie. Nel male: la tentazione di ripiegare, di chiudersi in una fortezza e di dare l’addio al mondo, l’altro, quello degli afflitti e dei dannati. Nel bene: i cittadini di Milano e Parigi alle finestre degli edifici per salutare questi ussari bianchi della Repubblica che sono i nostri operatori sanitari. Cosa, di questo o di quello, dell’umiliazione delle democrazie o della loro nobiltà prevarrà? Spetterà a ciascuno di noi, nel dolore e nella fede, deciderlo. (Traduzione di Carla Reschia)
Fonte: La Stampa
Foto: Il trionfo della morte di Pieter Bruegel il Vecchio (Museo del Prado)