di Maurizio Molinari
La scelta della Casa Bianca di ritirarsi dalla Siria innesca in Medio Oriente il timore di un più generale disimpegno americano dalla regione destinato ad accrescere la possibilità di conflitti fra le maggiori potenze. La decisione del presidente Donald Trump di consentire alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan di invadere il Rojava curdo è solo un tassello di un processo che appare più vasto: gli Stati Uniti non hanno soltanto ritirato le unità speciali dal confine turco-siriano ma tutto il contingente – mille uomini – dall’intero Nord della Siria e ciò è avvenuto ad appena venti giorni dall’attacco missilistico iraniano agli impianti petroliferi di Aramco in Arabia Saudita a cui Washington non ha risposto venendo meno al patto non scritto con Riad sullo scambio fra stabilità nella produzione del greggio e protezione dei pozzi.
Se a ció aggiungiamo i piani del Pentagono per riportare in Nord America parte delle sofisticate strutture di comando e controllo delle truppe in Medio Oriente- attualmente posizionate in Qatar e Arabia Saudita – si spiega perché nelle capitali della regione si stia diffondendo la convinzione che Trump voglia davvero mantenere la promessa elettorale di “porre fine al coinvolgimento in guerre interminabili che non ci appartengono”. È una scelta strategica che segue quelle compiute dal predecessore Barack Obama nel 2011 e nel 2013 – quando decise rispettivamente di ritirare tutte le truppe dall’Iraq e di non intervenire in Siria contro l’uso dei gas sui civili da parte di Assad – e pone il Medio Oriente in una situazione di pericoloso bilico.
Il motivo è che in politica estera il vuoto non esiste e dunque l’interrogativo è chi riempirà lo spazio lasciato dagli americani. L’intenzione di Washington è di favoriredi la formazione di un’alleanza politico-militare simile alla Nato fra Paesi del Golfo e Israele in funzione anti-Iran – come spiega anche l’invio in questi giorni di due nuovi squadroni di F-16 in Arabia – ma è un processo ancora in divenire. Da qui lo scenario di possibili collisioni fra le potenze regionali impegnate a perseguire interessi divergenti, in evidente competizione nel tentativo di riempire il vuoto creato dal ritiro degli americani.
È proprio la Siria a evidenziare tale rischio perché la Turchia vuole controllare stabilmente una fascia di territorio lungo i propri confini profonda 20-30 chilometri in funzione anti-curda mentre la Russia spinge il regime di Bashar Assad a tornare in possesso dell’intera nazione e l’Iran non gradisce l’ipoteca di Ankara su un Paese che considera sotto la propria sfera di influenza. Senza contare la variabile dei jihadisti di Isis e Al Qaeda che riconquistano spazio e risorse. Sulla carta Erdogan, Vladimir Putin e Hassan Rohani sono partner se non alleati – più volte si sono incontrati in veri e propri summit – ma il ritiro americano è un regalo avvelenato che ne esalta gli attriti e può portarli a confliggere.
Perché hanno in Siria disegni rivali: Erdogan persegue il progetto neo-ottomano di aree vassalle attorno ai propri confini, Putin vuole ricostruire il Paese degli Assad come un suo protettorato e l’Iran ne vuole fare una piattaforma per minacciare frontalmente Israele. Il ritiro Usa dal confine Siria-Iraq consente infatti a Teheran di avere mano libera nel trasferimento di uomini, armi e mezzi fra l’Iran e il Libano attraverso una “Mezzaluna sciita” – come l’ha definita il re Giordano Abdallah – che modifica gli equilibri regionali. Ovvero, si è messo in moto in Medio Oriente un domino di eventi che può portare a conflitti regionali.
Resta da vedere come la Russia si porrà davanti a tale rischio: ha sul terreno una significativa presenza strategica, vanta rapporti diretti e stretti con tutti gli attori e non ha interesse a crisi armate destinate a proiettare instabilità lungo i propri confini meridionali. Ma il Cremlino è ancora privo di una strategia di alleanze capace di generare sicurezza collettiva nel lungo termine. Con tali premesse non è difficile arrivare alla conclusione che lo scenario più verosimile nel breve periodo sia un aumento delle fibrillazioni fra i grandi rivali dell’Islam – sciiti iraniani e sunniti sauditi – a cui basta una scintilla o un incidente per degenerare in guerra aperta.
L’interesse dell’Europa è di evitare tale escalation perché pagherebbe un prezzo altissimo – in termini di sicurezza, migrazioni e commerci – ma i suoi leader appaiono divisi, distratti e miopi davanti alla necessità di considerare il Mediterraneo come il confine più urgente da presidiare.
Fonte: La Stampa, 20 ottobre 2019