Chi si oppone alla celebrazione del Vate agitando il fantasma del fascismo non conosce la Storia
di Vittorio Sgarbi
Di insensatezza in insensatezza si continua, da parte di nani che salgono in cattedra, a giudicare la storia, condannando D’Annunzio. Per non essersi contrapposto, non si sa come, al fascismo, Gabriele D’Annunzio è colpevole; e non merita di essere ricordato con monumenti e strade.
A questo punto, nemmeno di essere insegnato. Rispolverato l’indice dei libri proibiti, l’ovvia considerazione che D’Annunzio è un grande poeta non consente un sommario processo storico, di vaga legittimazione etica. Cecità e miopia estendono l’auspicata damnatio memoriae a chiunque sia stato onorato nel tempo del fascismo: Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti, Corrado Ricci e Margherita Sarfatti; e, perché no?, Guglielmo Marconi.
Non ci si vuole credere. I pensatori illuminati interpretano il pensiero del popolo. Per gli intellettuali e i cittadini che protestano a Trieste, il monumento è «uno sfregio alla città e alla sua storia inclusiva (sic!)». Basta aver avuto una debolezza, e non si meritano monumenti e strade. Non parliamo di Caravaggio. La retorica è senza pudore: «chi ha sottoscritto, calpestando idealmente il corpo di Matteotti e di molti altri, il manifesto degli intellettuali del fascismo, meriterebbe di essere espulso anche dalla onomastica stradale delle città italiane». Ecco allora saltare poeti o personaggi, con sentenze sommarie, ignorando che la poesia e la bellezza non si misurano con le scelte morali e gli orientamenti politici, e dividendo gli uomini di pensiero in buoni e cattivi. Il fascismo, come aveva ben inteso Giacomo Noventa, «non fu un errore contro la cultura, ma un errore della cultura italiana».
A distanza di più di cent’anni dai suoi capolavori, risulta incomprensibile rimproverare D’Annunzio per le sue scelte politiche, in ogni caso sempre orientate a un individualismo estraneo al fascismo e alla violenza squadrista. D’Annunzio, dal 1922 in poi, aveva deciso di smettere qualsiasi veste che non fosse quella dell’artista. Nel Libro ascetico della giovane Italia scrive: «ho allontanato da me qualunque bagliore di gloria. Non amo più la gloria; e m’è cruccio e m’è vergogna averla amata, averla seguita… Non ho nessuna ambizione di signoria, né di lode, né di favore, né di ricchezza». E ancora, nel 1924: «a tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia arte rinnovellata, amo la mia casa donata. Nulla d’estraneo mi tocca, e d’ogni giudizio altrui mi rido».
La ridicola contestazione italiana al monumento a D’Annunzio a Trieste, con risibili argomenti che subordinano la grandezza del poeta alle sue posizioni politiche, suscita indignazione, come sarebbe se si applicassero gli stessi schemi a Dante o a Caravaggio. Le semplificazioni e i moralismi appaiono sempre sinistri e censori, propri di una visione totalitaria. Si tratta di forme meschine di provincialismo, proprio mentre si è affermata in Francia la monografia su D’Annunzio di Maurizio Serra, che dedica giustamente al poeta un monumento di parole: «Gabriele D’Annunzio fu lo scrittore-personaggio più imitato del suo tempo. Henry James, Shaw, Stefan George, Heinrich e Thomas Mann, Karl Kraus, Hofmannsthal, Kipling, Musil, Joyce, Lawrence, Pound, Hemingway, Brecht, Borges e tutti i francesi – da Remy de Gourmont a Cocteau, Morand, Yourcenar – tre generazioni di intellettuali lo hanno letto, studiato, copiato». In questi termini si misura il giudizio storico su D’Annunzio, che non può essere né confuso né umiliato con il riferimento al Fascismo. Serra, con giudizio obiettivo scrive: «Negli anni tra il 1921 e il ’22, intorno a D’Annunzio si condensa un movimento alternativo al Fascismo. Mussolini anticipa la marcia su Roma il 28 ottobre del 1922 perché una iniziativa analoga era pensata da D’Annunzio e dai suoi per il 4 novembre. D’Annunzio, va detto una volta per tutte, non è mai stato fascista, neanche alla fine, quando viene eletto Presidente dell’Accademia d’Italia. Fu legato da un rapporto competitivo prima, e opportunistico poi, con il Fascismo, quando ormai aveva vinto l’altra parte, ma non fu mai, con cuore, ragione e sentimento, fascista». E infine: «Mi pare, invece, che l’ossessione tardivamente erotica di D’Annunzio, il suo essere volitivo, lo avvicini a Picasso, al Picasso degli ultimi anni. Non bisogna dimenticare che dal ’37 D’Annunzio mette in guardia Mussolini dall’avvicinarsi ad Adolf Hitler».
L’arcaico pregiudizio di condannare e disprezzare D’Annunzio perché fascista equivarrebbe a una considerazione limitativa di Picasso perché comunista. Occorre che anche gli italiani restituiscano l’onore e la dignità critica a D’Annunzio, evitando balbettii indegni. E, per risolvere i dubbi sul rapporto con il Fascismo, è sufficiente rileggere il bel libro Le rose del ventennio di Giancarlo Fusco, dove si racconta di un silenzioso tour di D’Annunzio con alcuni ospiti che, in visita al Vittoriale, gli chiedono che cosa ne pensasse del Fascismo. D’Annunzio, guidatili fino a uno dei sontuosi bagni, davanti al water esclamò, come per un vaticinio: «con la merda non si fabbrica».
Fonte: Il Giornale
Nella foto: la statua dello scultore Alessandro Verdi