«L’Iraq chiede aiuto all’Europa per fare sponda contro l’Iran. Gli americani, dopo oltre nove anni di occupazione fallimentare, ci hanno abbandonato in mezzo al guado. Altro che lavoro terminato! Altro che Iraq stabile e democratico! Di fatto stiamo diventando una provincia iraniana. Non è neppure da escludere che una buona parte dei terribili attentati che negli ultimi tempi sono tornati a insanguinare il nostro Paese come nel 2006 e 2007, persino quelli contro i pellegrini sciiti, siano alimentati da gruppi legati all’estremismo iraniano». E’ un risentito grido di allarme quello che lancia Tariq Al Hashimi dal suo rifugio sulle montagne del Kurdistan iracheno.
Il vice presidente iracheno è assurto a simbolo delle sofferenze sunnite contro la nuova egemonia sciita sostenuta da Teheran da quando il 18 dicembre, solo poche ore dopo il ritiro dell’ultimo soldato americano dal Paese, il premier sciita Nuri Al Maliki lo ha pubblicamente accusato di sostenere il terrorismo e ha firmato un mandato di arresto nei suoi confronti. Da allora, le sue guardie del corpo e i suoi collaboratori più stretti sono stati metodicamente interrogati e imprigionati. Lui è stato invece accettato come ospite di riguardo dal presidente iracheno con cui lavora spalla a spalla dal 2004, il leader curdo Jalal Talabani, e da ormai quasi un mese risiede in una delle sue ville tra le montagne alla periferia di Sulimanye. L’enclave curda è di fatto diventata un mini-Stato indipendente dove la polizia di Bagdad non ha alcuna giurisdizione. E qui Hashimi ci ha ricevuto per quasi due ore.
Cosa risponde alle accuse di terrorismo?
«Sono assurde, inconcepibili, una vera pugnalata alla schiena proprio contro di me che dal 2004 mi impegno con tutte le forze per il dialogo intercomunitario e specialmente per la cooperazione tra sciiti e sunniti. E ho pagato di persona: sono sempre sotto minaccia dei gruppi estremisti settari. I terroristi negli ultimi anni hanno ucciso due miei fratelli e una sorella. Ora Maliki cerca di annientarmi, colpisce la mia reputazione, mi isola con la menzogna più sbalorditiva».
Lei chiede di essere processato nelle zone curde, perché?
«Prima di tutto poiché esigo che la mia reputazione sia salvaguardata. Dimostrerò davanti al tribunale la mia completa innocenza. La mia difesa sarà un atto di accusa contro Maliki. Però non ho alcuna fiducia nei tribunali di Bagdad. Purtroppo ho visto con i miei occhi che dal 2006 il sistema giudiziario centrale è diventato sempre più corrotto, più influenzato dalla politica. Ora ha perso la propria indipendenza, è diventato servo dell’esecutivo. Qui in Kurdistan i tribunali sono molto più puliti. E il Presidente Talabani garantisce per la mia incolumità».
Come spiega la mossa di Maliki nei suoi confronti subito dopo l’uscita degli americani? Una provocazione contro la politica Usa che lavora per la cooperazione tra sciiti e sunniti?
«Maliki sostiene che io stessi preparando un colpo di Stato militare. Per questo avrebbe agito in fretta. In realtà quando i suoi soldati sono venuti a casa mia, hanno trovato solo una pistola e un fucile per la difesa personale. Mi hanno chiesto dove fossero le armi pesanti. Sono rimasti di sasso nello scoprire che non c’era nulla, assolutamente nulla. A Maliki occorre chiedere perché miri a stravolgere tanto velocemente la costruzione politica lasciata dagli americani».
Pensa a un’influenza di Teheran?
«Assolutamente sì. Il grave dell’occupazione americana è che termina regalando l’Iraq all’Iran. A un mese dalla partenza del contingente Usa è sempre più evidente: siamo diventati de facto un Iraqistan. Lo ha ammesso pubblicamente persino il capo di stato maggiore iraniano che il vacuum militare lasciato dagli americani sarà riempito da loro. E anche nel mio caso gli iraniani giocano sporco. I motivi sono anche di politica regionale. L’Iran cerca di salvare il regime di Bashar Al Assad in Siria, suo alleato storico. E l’Iraq diventa merce di scambio: se non cessate di lavorare per il cambiamento del regime in Siria, noi stravolgeremo l’Iraq. E’ un messaggio destinato non solo a Washington e alle cancellerie occidentali, ma soprattutto alla Turchia, che sempre più si sta tessendo un ruolo di difensore degli interessi arabo-sunniti. Da Teheran dicono: va bene cerchiamo un compromesso su Bagdad, ma al prezzo che se ne trovi uno anche per Damasco».
C’è spazio per un suo compromesso con Maliki?
«Dipende. Non escludo nulla. Questa è una crisi politica e va risolta in modo politico. Però Maliki in questo modo non fa che accrescere lo scontro settario tra sciiti, sunniti e curdi: esattamente l’opposto della mia politica».
Teme la divisione del Paese in tre parti?
«Occorre evitarla a tutti i costi. Sarebbe la fine dell’Iraq e l’inizio del caos».
Curioso, il suo caso ha evidenziato la nuova alleanza tra sunniti e curdi contro gli sciiti. Ai tempi di Saddam Hussein era l’opposto: sciiti e curdi contro sunniti.
«E’ vero — ride —. Sono alleanze ed equilibri in continuo mutamento. Ma l’importante è lavorare per l’integrazione. Mi sto impegnando per formulare finalmente una legge che regoli la distribuzione dei proventi delle risorse energetiche tra Stato centrale e province».
Lei avrebbe preferito che Saddam Hussein non venisse defenestrato? Come giudica questi 9 anni dall’invasione Usa?
«No, Saddam andava cacciato, era assolutamente necessario. Ma sarebbe stato meglio che gli americani aiutassero con ogni mezzo gli iracheni a farlo da soli. Ci saremmo risparmiati i nove anni di orrore dell’occupazione militare e le sue conseguenze ancora più gravi. Gli americani ci hanno abbandonato senza aver terminato la loro missione. E noi ora da soli non abbiamo i mezzi di completare l’opera per un Iraq libero e democratico».
Lorenzo Cremonesi, 13 gennaio 2012
Fonte: Corriere della Sera