I punti chiave di una missione che funziona: parla Carmine Masiello, comandante del settore Ovest di Isaf in Afghanistan
L’attacco di ieri al Provincial recostruction team (Prt) di Herat, cabina di regia della ricostruzione della regione Ovest in Afghanistan, non ha senso. Come non l’aveva l’attentato ai militari italiani in Libano di venerdì. Il lavoro di Isaf, la missione Nato, come quello italiano stanno dando risultati straordinari, come spiega in una lunga intervista a liberal il generale Carmine Masiello della Folgore, a capo del comando settore Ovest di Isaf, che ha proprio Herat come quartier generale. Masiello è un vero “basco amaranto”ready to combat, ma con in tasca una laurea in scienze politiche, studi strategici e un corso in diplomazia – tanto per citare qualche diploma – il tutto accompagnato da una notevole sensibilità “politica”.Con precedenti esperienze in Kurdistan, Somalia, Iraq e Libano.
E forse sono proprio gli ottimi risultati ottenuti nella regione Ovest, primo passo verso la transizione, l’appoggio della popolazione, l’autonomia raggiunta dalle forze di sicurezza locali ad esser diventati il bersaglio di chi non vuole la pace in Afghanistan. Il generale di brigata dei paracadutisti ci spiega i successi raggiunti e di conseguenza è più facile farsi un’idea del perché si è voluto colpire Herat. «La situazione della Regione Ovest di cui sono responsabile è perfettamente in linea con quella che è stata la pianificazione operativa degli anni scorsi secondo la strategia di Isaf. Nell’area italiana naturalmente è la somma dell’attività di tutte le brigate che si sono succedute. È una situazione articolata per territorio, componente etnica, e la maggiore o minore presenza di forze di sicurezza. Rispetto all’ultimo periodo di attività della Folgore in Afghanistan la situazione è notevolmente migliorata. Ora si comincia a parlare di transizione. Ci sono dei tratti della Highway 1 (una delle principali arterie autostradali) che non erano sicuri e che oggi, nonostante tutto, lo sono molto di più. La popolazione è molto più tranquilla nello svolgere le proprie attività quotidiane».
Il generale vuole sottolineare come l’atmosfera generale nel Paese centrasiatico sia improntata a un deciso miglioramento per quanto ci si trovi comunque in un’area di guerra. E l’episodio di ieri lo dimostra. E anche l’altro obiettivo cardine della transizione, l’addestramento dei militari afgani ha cominciato a dare risultati. «La preparazione delle forze di sicurezza afghane è migliorata notevolmente. Stanno dimostrando sempre di più di poter esercitare un controllo effettivo del territorio. Sono sempre più autonomi rispetto alle forze Isaf». Herat in particolare era pronta a partire per il processo di transizione, è evidente dunque che l’episodio di ieri è questo risultato che vorrebbe colpire: la transizione. Bala Murghab invece è un nome che evoca battaglie e scontri anche duri. Lungo quel confine passa la droga afghana (l’80 per cento della produzione mondiale di oppio) verso le ex repubbliche sovietiche e quindi nei mercati d’Occidente. Insorgenti, war lord e trafficanti hanno mal digerito la presenza di Isaf e i maniera particolare degli italiani in quel settore.
Ma anche lì i risultati sono arrivati. «La recente operazione di allargamento della bolla di sicurezza di Bala Murghab ha seguito uno schema classico della counter-insurgency, con un lavoro informativo è un’attività di disarticolazione della catena di comando e controllo dell’insorgenza. Seguita poi dall’intervento delle forze di sicurezza afgane e di Isaf». Ma «disarticolazione » è un termine che avevamo sentito in passato. «Sono psy-op, operazioni di tipo psicologico. Si fa capire che si arriverà in forze in una determinata area, si invita l’insorgenza a lasciare la zona. Funzionano quasi sempre. A Bala Murghab anche. Rispetto al confine nord con il Turkmenistan ci stiamo avvicinando, siamo ancora a una trentina di chilometri. Sono stato personalmente a incontrare gli anziani del villaggio di Mouri-chak. Hanno problemi di carattere umanitario. Proprio perché non sono stati coinvolti dall’insorgenza talebana, sono stati un po’ dimenticati. Non hanno problemi di sicurezza, ma di supporto umanitario».
Il generale ha incontrato il generale David Petraeus, capo della missione Isaf, prima della visita del segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, a dimostrazione dell’importanza che il settore Ovest ricopre nel mosaico afgano. Naturalmente Masiello risponde politicamente: «ottimi rapporti con tutti, non solo con gli americani, ma anche con i contingenti degli altri 10 Paesi che operano in questo settore». Ma sappiamo che il Pentagono oltre ad apprezzare i Carabinieri ha imparato a stimare anche i baschi amaranto. Comunque in tutte le operazioni sono sempre di più le forze afgane ad operare in prima linea. «Noi non pianifichiamo nulla, se prima non condividiamo con gli afgani: sono i padroni del territorio ». La cosiddetta integrazione è piena. «Gli elicotteri Usa trasportano personale afgano, supportano militari italiani a terra, fanno trasporti logistici per gli spagnoli. L’integrazione è perfetta. Nella zona di Farah, ad esempio, abbiamo una task force Usa e una italiana che lavorano insieme».E anche la prevista riduzione di truppe Usa è ancora sul tavolo della politica. «Per ciò che mi è stato comunicato, non vi è ancora alcuna diminuzione di forze».
Ma veniamo ai veri motivi per cui si è voluto colpire il Provincial recostruction team ad Herat, vera cabina di regia per la transizione e lo State building in quel territorio. Il generale ci spiega i quattro livelli in cui si è operato, portando a termine progetti civili. Il primo livello è quello delle operazioni Cimic (Cooperazione civile- militare) più classiche, per intenderci: il pozzo dell’acqua, il gruppo elettrogeno, i banchi per una scuola. Il secondo è quello che coinvolge proprio il Prt di Herat «e prossimamente quello gestito dagli spagnoli di Bala Murghab» e che spiana la strada agli altri due. Il terzo gradino d’intervento è quello finanziato dai donor internazionali e comprende progetti più impegnativi e costosi, come le infrastrutture. Il quarto è forse è uno di quelli più importanti, perché prevede la riattivazione di un tessuto economico locale «con il coinvolgimento di imprenditori afgani ».
Il Prt, al comando del Colonnello Paolo Pomella, è un’attività del 132° reggimento della brigata Ariete che supporta la governance e il processo di ricostruzione e sviluppo con una componente civile del ministero Affari Esteri. Si incentiva l’occupazione locale (i progetti vengono materialmente realizzati da ditte afghane), lo sviluppo economico dell’area e la fiducia verso le istituzioni politiche locali e gli anziani dei villaggi. Il governo italiano si è dunque mosso creando ciò che era mancato in Iraq: l’integrazione fra intervento militare e sistema Paese. Di recente era stato firmato a Kabul anche un memorandum industriale con il nostro ministero dello Sviluppo economico. E in questo gli italiani hanno dimostrato di saperci fare, eccome. Forse troppo.
Pierre Chiartano, 31 maggio 2011
Fonte: Liberal