Perché scrivere del proprio dolore? Perché raccontare la propria storia? Stefano Bartezzaghi parlando di Gramellini e citando anche me faceva una critica garbata ad alcune forme di narrazione autobiografica che a volte diventano bestseller. Non prendo in considerazione l’ ipotesi che uno lo possa fare per vendere libri, ma vorrei provare a spiegare, piuttosto, perché si sente l’ urgenza di raccontare.
Non credo che esista una sola risposta. Come sempre, tutto dipende da colui o da colei che, un giorno, decide di “fare qualcosa” di quella sofferenza e di quegli attimi di solitudine estrema in cui nessuno poteva capire, perché nessuno trovava le parole per dirlo. Ma anche dal valore che si accorda alla scrittura. Perché talvolta si bara limitandosi a sbattere in faccia agli altri le proprie lacrime. Ma questo è proprio quello che cercano di evitare coloro che scrivono per dare un senso all’ esistenza. In questo caso le emozioni non vengono mai “buttate” sulla carta.
Quando si scrive, è perché ci si è messo tanto tempo – talvolta anni e anni – prima di trovare finalmente quelle parole. E allora si cerca solo di condividerle con gli altri. Per mettere un po’ di ordine nel mondo, come direbbe Albert Camus. Per trasformare il proprio dolore in un atto militante. Visto che scrivere di sé e delle proprie esperienze, ormai lo sappiamo bene,è anche un’ azione politica, un modo di mostrare che il “privato” è, in fondo, sempre “pubblico”.
Certo, nella scrittura autobiografica può accadere che alcuni ci “mettano le viscere” senza essere capaci di passare per la mediazione razionale. E appunto il problema non è quello del “perché” si parla di sé, quanto quello del “come”. Che è poi l’ eterno problema del raccontarsi. Come dire quello che si è vissuto senza scadere nell’ infantilismo, nella commiserazione? Come utilizzare metafore, ossimorie paradossi senza svuotare di senso la scrittura?
Quello che ho cercato di fare con Volevo essere una farfalla è stato proprio questo: trovare le “parole giuste”. Raccontare la mia anoressia non per “mettermi in scena”, ma per nominare quell’ evento che mi aveva attraversato. Quell’ evento di cui parla Hannah Arendt quando spiega che l’ unico modo per incarnare il pensiero è partire dalla macerie da cui ci si trova un giorno circondati. Quell’ evento che lascia tante persone senza parole, e che ha invece proprio bisogno delle parole per dirsi, affinché si possa pian piano imparare ad accettare la propria fragilità e le proprie ferite. Quell’ evento che rinvia al “vuoto esistenziale” che ognuno di noi, in fondo, si porta dentro e con il quale deve poter convivere, senza illudersi di incontrare un giorno chi sarà capace di colmarlo.
Perché è una mancanza ontologica che caratterizza la condizione umana, come spiega Jacques Lacan. Ecco perché scrivere di sé non significa solo “scrivere dolore”, ma trovare il modo per “nominarlo”. Per raccontare le sfumature impercettibili dell’ esistenza, quel non detto e quel non fatto che talvolta ci tormentano. Che senso avrebbe d’ altronde scrivere la propria storia, se le parole non servissero poi a raccontare quegli attimi di “non senso” che, in fondo, ogni essere umano conosce, o ha conosciuto, almeno una volta nella propria vita? –
Michela Marzano, 17 marzo 2012
Fonte: la Repubblica