Anche l’ordinario militare può respirare «lo sgomento, il vuoto del cuore, un’angoscia soffocante dovuta alla ricerca del senso di un dolore disumano». Così l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare dal 14 ottobre 2006, si trova spesso a porgere parole di conforto spirituale da parte della Chiesa ai familiari dei caduti di guerra. E non nasconde che non sia facile. «Vivo attimi intensi di preghiera, invocando la presenza del Signore, perché metta sulle mie labbra le parole della sua consolazione».

Lei è sempre presente in uno dei momenti più tragici per un genitore, quando a Ciampino si apre il portellone di un C130 e arrivano le salme dei mariti, dei padri, dei figli, dei fratelli.
“Speriamo – mi sussurrava una mamma una volta – che il sacrificio di mio figlio non sia vano e che il Signore aiuti l’umanità”. Ecco, l’aeroporto di Ciampino si trasforma in una scuola di fede, che non ha bisogno di belle espressioni o di tecniche di accoglienza ma di una speranza che è figlia dell’amore divino e delle lacrime umane.

Quando si è in guerra la grande Storia irrompe nella quotidianità. In quanti riescono ad accettare il destino che ha colpito le loro famiglie?
I militari italiani non considerano le missioni internazionali di sicurezza come esperienza di guerra, perché sono desiderosi di sostenere la democrazia a costruire la pace in luoghi martoriati. In questi sei anni di ministero episcopale tra i militari solo una mamma ha reagito con rabbia all’uccisione del figlio. Negli altri casi ho potuto constatare come le mamme, i papà e le spose, persone più esposte al dolore, hanno manifestato maturità di fede e capacità di amore. Le famiglie dei nostri ragazzi sono protagoniste di quella tenerezza introvabile lontano da Dio.

La rassegnazione per la perdita di un familiare lascia quindi spazio alla speranza?
La rassegnazione è un sentimento che non trovo nell’animo di coloro che nelle case sono stati educati alla fede e nelle parrocchie o nei gruppi ecclesiali hanno ricevuto quel seme di speranza evangelica, che li ha portati a scegliere una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana.

Cosa è possibile fare concretamente affinché nelle famiglie colpite dal lutto non prevalga la rabbia?
Ai genitori interessa dare continuità al bene avviato dai loro figli. “Se mio figlio si è donato per aiutare bambini e persone in difficoltà – mi diceva qualche tempo fa un genitore – posso continuare il suo impegno sostenendo la costruzione in Afghanistan di scuole o adottando bambini a distanza”. A riguardo, la Chiesa sostiene significativi percorsi di riconciliazione. L’ultimo è il caso dei due marinai trattenuti in India e delle famiglie dei pescatori trovati uccisi durante una notte di lavoro. Tramite la mediazione di don Giuseppe Faraci, cappellano che da mesi segue questa delicata vicenda, il cuore dei marinai si è aperto alla preghiera di intercessione e le famiglie dei pescatori hanno deposto ogni desiderio di vendetta. È servita a creare un clima di misericordia anche l’iniziativa della commissione Caritas dell’ordinariato che ha attribuito due borse di studio a giovani familiari dei pescatori.

Quali sono le principali esigenze spirituali a cui i cappellani militari fanno fronte nei teatri di guerra?
I cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace. A loro tocca accompagnare e sostenere con la preghiera e l’affetto, con la misericordia e l’intuizione spirituale la lettura dei grovigli del cuore umano.

Ci sono ferite che si vedono, altre che non si vedono. Quanto è difficile la condizione di chi rintorna e rimane intrappolato a vita in una disabilità o di chi, per altri versi, quasi si colpevolizza per essere sopravvissuto e si chiede perché sia un reduce o desidera, proprio per questo motivo, di morire?
Può sembrare irreale, ma chi avvicina i nostri feriti avverte la serenità dovuta alla consapevolezza di aver seminato giustizia dove la dignità umana è assente, contribuendo a rendere il mondo più libero e umano. Nello scorso maggio ho vissuto l’annuale pellegrinaggio militare a Lourdes con i ragazzi feriti in Libano e in Afghanistan. Persone sofferenti, ma motivate e fiere del loro servizio allo Stato, disponibili a qualsiasi sacrificio per il bene della famiglia umana. I militari feriti, infatti, soffrono più per i loro amici caduti che per le difficoltà fisiche. A Lourdes, uno dei feriti dell’Afghanistan ha voluto donarmi la piccola medaglia raffigurante san Michele che portava nella mimetica nel giorno dell’attentato.

Come è possibile rimanere saldi nella certezza che esiste una Grazia divina, quando nella guerra prevale la bestialità umana?
Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità. La guerra, purtroppo, non è estirpata dalla condizione umana e gli uomini, in quanto peccatori, saranno minacciati da conflitti sino alla venuta di Cristo. I nostri militari, se fanno prevalere le virtù sui vizi, gli ideali sulle ideologie, gli interessi comuni su quelli individuali, possono diffondere alternative di giustizia e pace, come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli.

Laura Silvia Battaglia, 8 agosto 2012

Fonte: Avvenire

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