Gli americani si preoccupano della nostra vista corta e delle casse vuote, ma si sono condannati ad avere di nuovo bisogno di noi nel Mediterraneo e in Africa. Come vedono l’Italia dalle sponde del Potomac? Se uno dovesse basarsi sull’ultimo studio dell’American Enterprise Institute, “Italian hard power: ambitions and fiscal realities”, a firma di Gary Schmitt, non ci sarebbe di che essere allegri. L’esperto americano, che è di casa al Centro alti studi per la Difesa di Roma, ha certificato i principali problemi che si troverà a fronteggiare il nostro paese e, di conseguenza, i nostri alleati. Le spese militari sono da sempre oggetto di particolare attenzione da parte americana, al punto che tutta la cronaca politico-istituzionale viene letta e analizzata provando a prevederne le ricadute sulle voci del bilancio pubblico relative alla Difesa e alle missioni all’estero. D’altra parte la spesa per la Difesa di Via XX Settembre (nella foto, palazzo Baracchini) è risicata, soprattutto se confrontata con quella di altri paesi europei come la Francia.
Ottava potenza economica al mondo, Roma non è stata capace di tradurre le proprie credenziali geografiche ed economiche in autorevolezza internazionale, nonostante i propositi ambiziosi annunciati nel Libro bianco dell’ormai remoto 2001, quando vennero identificate le (non poche) aree prioritarie per il nostro paese, che spaziavano dal sud-est europeo al Caucaso, senza tralasciare Corno d’Africa e Maghreb. Da allora è passato davvero tanto tempo, e l’alleanza con gli Stati Uniti ci ha portato a fare alcune cose importanti: la missione in Afghanistan, quella in Iraq, quella in Libano, ma sempre nel segno della fedeltà al concerto internazionale più che all’idea di sviluppare un’armonia propria che rispondesse all’interesse nazionale.
A preoccupare Gary Schmitt non è solo l’entità (esigua) della nostra spesa militare, ma anche le crescenti difficoltà nel giustificare gli interventi internazionali, a trovare una bussola nelle nostre scelte, a proporre visioni e scenari plausibili e agire di conseguenza. Incapacità, dunque, di fare scenaristica di qualità – “what if? – come ormai fanno le principali corporation globali nel tentativo di capire i futuri alternativi e non farsi sorprendere dagli eventi, ma anche di tenere dritta la barra. Un paese non insegue la luna, ma un obiettivo concreto. Se guardiamo con distacco agli ultimi vent’anni della nostra politica estera, il vero elemento dominante, l’unica costante, è l’incertezza: con Putin sull’energia, con gli americani quando c’è da combattere, con gli arabi quando c’è da mediare nel suk, ma quasi mai con l’Italia e gli italiani.
La storia, però, è imprevedibile e a volte imbocca traiettorie curvilinee. Con il crollo del Patto di Varsavia e il progressivo spostamento dell’agenda strategica americana verso oriente, si è fatto largo negli anni il convincimento dell’inevitabilità di “Chimerica”, la sintesi transpacifica che prima sposta l’occidente verso l’oriente, dall’Atlantico al Pacifico, e poi gli fa perdere la sua identità storica ibridandolo con l’Asia. Più volte, cupa, è risuonata la profezia di Theodore Roosevelt, pronunciata a San Francisco all’inizio del Novecento in occasione della posa del cavo telegrafico sottomarino tra America e Asia, secondo cui il Pacifico diventerà il nuovo Mediterraneo. Per l’Italia questa profezia – che ha continuato a fare capolino nei discorsi pubblici precedenti il voto americano della scorsa notte – è una condanna alla marginalizzazione o all’irrilevanza.
La storia, però, si muove spesso a sussulti, e anche le condanne non sono irrimediabili: le primavere arabe, largamente incompiute, sono un assist al nostro paese anche a dispetto della crisi dell’Eurozona. Se guardiamo alla sponda sud del Mediterraneo, si può affermare che gli americani hanno erroneamente attribuito a quest’area una tendenza naturale alla riorganizzazione democratica, e ne hanno favorito il rimescolamento senza tuttavia seguirne fino in fondo gli esiti. A questo stadio, il disimpegno è difficile se non impossibile. Gli americani non possono smarcarsi dal Mediterraneo perché sono in gioco molte variabili strategiche ed economiche: i delicatissimi equilibri all’interno del mondo musulmano (in particolare il bilanciamento tra sciiti e sunniti e il mantenimento di élite secolarizzate), la tutela delle rotte marittime e la proiezione cinese nel quadrante mediterraneo, gli snodi delle telecomunicazioni, i rapporti con l’Asia minore e la Turchia, l’amicizia profonda con Israele, il presidio sempre più intenso del continente africano per il quale già esiste il potente comando Africom di Stoccarda.
Francesco Galietti, 6 novembre 2012
Fonte: Il Foglio