Il giornalismo come ricerca e non come opinione, il reporter e non il personaggio, durezza con se stessi e pietà per gli altri

Quando mi coglie lo sgomento per quel che sta diventando il nostro mestiere, vado da sempre a rileggere qualche pagina del Provinciale, come un antidoto. Giorgio Bocca è un giornalista irripetibile, e non solo per l’ovvio motivo che non c’è nessuno bravo come lui, che la carta stampata non ha più il monopolio dell’informazione, e che solo una guerra (vera, non mimata) può dare spessore definitivo a una biografia.

E’ il suo mondo a essere finito, o almeno a vacillare. Un mondo in cui il giornalismo era ricerca e scrittura, non opinione e invettiva. In cui servivano cronisti e reporter, non personaggi. In cui era possibile scrivere una critica al Sud senza passare per antimeridionali(anche se Bocca “allergico al Meridione” era diventato come confessa a pagina 316). In cui la selezione avveniva in base alla capacità di muoversi, capire e raccontare.

Anche oggi ovviamente fioriscono talenti, ma crescono in ambienti persuasi che i confini del mondo coincidano con quelli della propria testa, dove non conta la comprensione profonda dei problemi ma la battuta brillante e la demolizione del rivale, non la capacità di lavoro ma di tenere pubbliche relazioni ed indossare una maschera di immediata riconoscibilità ed efficacia televisiva.

Eppure il giornalismo resta importante, perché siamo un Paese senza accademia, in cui i cattedratici non scrivono per il pubblico ma per i colleghi e per se stessi, per dimostrare di essere bravi, e sono persuasi di essere tanto più bravi quanto più sono oscuri. Per questo non sarebbe male che si tenesse presente la lezione di Bocca anche in questo: coltivare la coscienza di fare un mestiere aperto alle tentazioni, alle scorciatoie, alla corruzione, avere la forza di respingerle in ogni circostanza, e nello stesso tempo mantenere il rispetto reciproco, quel rispetto che mostra Silvia Giacomoni quando dice: “Giorgio mi ha insegnato che alle domande dei colleghi si risponde sempre”.

Francamente, in molti dei ritratti postumi di Bocca non mi sono riconosciuto. Questo insistere sul fatto che fosse burbero, per esempio. Ma con i colleghi giovani era dolcissimo, “vieni quando vuoi, no alle 4 dormo, ti dispiace venire alle 5?”. Del resto, Il Provinciale è un libro duro, aspro, si vede che è scritto da uno che ha sparato, così come è chiaro che Esilio di Enzo Bettiza, per citare un altro grande, è scritto da uno che ha dipinto e infatti non annoia mai, neppure nelle descrizioni.

Bocca invece descriveva in poche parole, tagliava coi suoi giudizi, a volte feriva, ma era severo in primo luogo con se stesso. Come quando racconta del suo abbaglio di ventenne, la recensione dei Savi di Sion. “Ci scherzavo con gli amici ebrei di Milano e di Courmayeur ma coglievo sul loro viso come un riflesso condizionato: va bè non parliamone, ma l’hai scritta”.

Aldo Cazzullo, 19 gennaio 2012

Fonte: Sette

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