Parla il generale Fogari, responsabile della pubblica informazione dello stato maggiore della Difesa

 

«La comunicazione è diventata un’arma per vincere i conflitti. Servono dei veri professionisti per gestirla»

 

Dalla guerra del Vietnam con le cronache quotidiane di Walter Cronkite per la Cbs news, la comunicazione è diventata una vera arma per vincere o perdere i conflitti. Proprio oggi con le spoglie del nostro militare, morto in Afghanistan, arrivate all’aeroporto di Ciampino, sembra questo essere ancora il tema centrale: perché sostenere un conflitto?

Le guerre odierne per l’Occidente si combattono lontano dai propri confini, ma si vincono in patria. Lo dimostra anche la cronaca quotidiana con la scia di polemiche sull’utilità del nostro impegno all’estero che si è scatenata proprio a causa della morte del caporalmaggiore Gaetano Tuccillo. A tenere banco è la polemica politica. E’ utile fare un breve exursus storico sull’importanza dell’uso dei media nella “narrazione” degli eventi bellici.

Negli anni Sessanta e Settanta anchorman come Conkrite erano considerati dei veri opinion maker. «L’uomo che gode di maggior fiducia presso gli americani», recitava il titolo di un sondaggio di quegli anni. E il rapporto tra governo, Casa Bianca, establishment del potere e media era di confronto continuo, non di commistione d’interessi. Il vecchio detto sulla stampa «cane da guardia della democrazia» aveva un valore nell’America durante la guerra al comunismo nelle giungle asiatiche. E in parte lo ha tuttora.

Ma ci sono stati altri protagonisti della comunicazione in divisa che hanno saputo rompere gli schemi, tra questi un posto d’onore lo conquista Adrian Cronauer, dalla cui biografia è stato tratto il film Good Morning, Vietnam. Tutti «vogliono parlare», perché l’essere umano è un animale sociale e «un microfono è la finestra tra le tue idee e il mondo” Così spiegava a liberal lo scorso autunno l’esperto americano che con Radio Saigon aveva rotto gli schemi del linguaggio radiofonico made in Pentagono.

Ma c’è anche il detto che la prima vittima di una guerra sia la verità. Siamo nell’era dell’informazione globale e totale, ma spesso – vedi il caso Libia – non si può essere sicuri neanche di chi fa informazione contro-corrente, come al Jazeera.

ll compito di chi fa comunicazione per le forze armate è diverso da chi lo fa per il pubblico, ma col tempo le differenze si stanno livellando. E anche i militari hanno scoperto quanto sia potente l’arma dell’informazione quando non filtra, ma gestisce le notizie e punta alla trasparenza. Togliendo cosi l’acqua a chi fa la cosiddetta controinformazione. E potremmo arrivare al “paradosso” di ottenere notizie più attendibili da un ufficiale della pubblica informazione (Pio) che da un giornalista di al Jezeera, tanto per fare un esempio.

Le dirette della Cnn da una Bagdad ormai abbandonata dagli occidentali, prima dell’invasione del 2003, sono la cartina di tornasole di un’altra svolta, dove da un lato s’invadeva e si gettavano bombe, dall’altro si cercava di comunicare informazioni. Tutto sotto la stessa bandiera.

Ci ha aiutato nell’analisi uno dei massimi esperti del settore. il generale Massimo Fogari, responsabile dell’ufficio pubblica informazione dello stato maggiore Difesa. Uno dei primi ufficiali italiani ad operare nel settore pubblica informazione in campo Nato, durante le operazioni nei Balcani a metà anni Novanta.

«L’esempio americano della guerra nel Vietnam è accaduto molto prima del cambiamento nelle nostre forze armate», spiega il generale, sottintendendo che in Italia la svolta è “recente”. «Da noi il cambiamento sostanziale nel modo di comunicare e avvenuto attorno al 1995. Prima era un’esigenza per niente sentita. Le nostre forze armate erano ancora legate a un concetto della propria funzione di matrice risorgimentale. Ritenevano di essere l’Istituzione per eccellenza, non messa in discussione da nessuno, le cui funzioni erano pienamente condivise da tutti». Comunicare dunque era quasi superfluo.

«Esistono anche altri motivi. La sconfitta della Seconda guerra mondiale e le polemiche nate successivamente avevano portato a un distacco progressivo tra la realtà del Paese e quella delle forze armate. Siamo cosi arrivati alla fine degli anni Settanta. Poi abbiamo avuto la nostra prima missione all’estero, nel 1982 in Libano».

E come poter dimenticare la missione del generale Angioni, immortalata nelle avvincenti pagine del libro di Oriana Fallaci lnshallah. «Noi avevamo bisogno di far sapere al Paese cosa stavamo facendo su quella sponda del Mediterraneo e c’era un’enorme richiesta d’informazione da parte dei media. Unendo le due cose è scaturita una comunicazione che per l’epoca è stata eccellente. Oltre al libro della Fallaci abbiamo visto la nascita del giornalismo embedded ante litteram. Abbiamo ospitato decine di giornalisti, dando la possibilità di riportare una realtà altrimenti non percepibile».

All’epoca il clima del Paese era decisamente diverso da oggi. I politici erano terrorizzati dall’idea che potesse tornare in patria anche un solo feretro di nostri militari. Il concetto di responsabilità internazionale era compreso, a stento, dalla classe politica, figuriamoci dalla nazione. Quindi dal punto di vista della comunicazione il Libano del 1982 è stato come il Vietnam per gli Usa: una svolta.

«Poi dopo questa missione abbiamo avuto un altro periodo di sostanziale immobilità, fino alla seconda metà degli anni Novanta. C’erano nuovi ufficiali al comando, cresciuti nella cultura dei nuovi strumenti di comunicazione e in un clima dove i media contavano molto. Sullo sfondo avevamo il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale. Con le missioni in Kosovo e Bosnia a condire il tutto». Per Fogari sono stati questi gli elementi del grande cambiamento che ha riavvicinato gli uomini in divisa al Paese, fino a farli percepire talmente vicini alla comunità e farceli apparire come dei «cittadini in divisa». E fu proprio l’esperienza dei Balcani a cambiare il modo con cui l’Italia guardava alla proprie forze armate.

«Non era più il soldatino in divisa armato di fucile. Non solo si dimostrò la diversa capacità dei nostri militari. ma questa capacità fu trasferita dai media al pubblico italiano. In Kosovo all’inizio c’erano dei problemi di politica internazionale per cui ci si doveva muovere con grande attenzione. All’epoca c’erano degli uffici Documentazione e attività promozionale e lo stato maggiore Difesa aveva un ufficio Pubblica informazione. Ma ognuno gestiva il proprio contingente come meglio credeva. La svolta è arrivata con la riforma dei vertici, con il riconoscimento del capo di stato maggiore Difesa come unico generale “a quattro stelle“. La legge 95 gli da competenze anche nella pubblica informazione».

Ma ciò che separava la comunicazione tout court da quella militare erano dei concetti di base legati alla sicurezza e in forma indiretta alla ricerca di consenso. «Occorre dividere l’attività di comunicazione da quella informativa. Con una libera traduzione dall’inglese. Nella Nato esistono le information operation che hanno come obiettivo il pubblico “nemico” e che si svolgono in parallelo con le operazioni militari. Il mio ufficio, che con la nuova legge opera come un vero ufficio stampa. ha invece il compito di informare i cittadini sulle nostre attività. In pratica perché e come si spendono i soldi per mantenere la struttura militare. E poi quello di far vedere cosa fanno i nostri soldati in Patria e all’estero. Dire la verità sulle nostre attività».

Argomento tornato alle cronache proprio nelle ultime ore. Per estensione è la creazione del consenso per l’attività di un’istituzione. «Non è un effetto diretto o voluto. E’ una conseguenza indiretta della nostra attività di comunicazione». Per essere chiari la prima mission «è la trasparenza». Di qui nasce il passaggio al concetto di «cittadini in divisa» per i militari, quale corpo vivo e attivo nella comunità e non corporazione o elite.

Un concetto che ha trasformato le forze armate italiane anche in un vero incubatore di classe dirigente. Ufficiali e soldati rappresentano il meglio – soprattutto fuori dai confini nazionali – della disciplina e dell’ingegno nazionale. Fanno fare al Paese una bella figura, in un momento in cui l’Italia abbonda di cattivi esempi. E chi aveva paura che un esercito di professionisti fosse ancor più separato dal Paese, non ha avuto ragione.

«La nostra maniera di comunicare è fondamentalmente legata alla cultura della tradizione orale. La scrittura è arrivata successivamente per codificare, all’inizio, la cultura e la liturgia religiosa. I nostri meccanismi d’apprendimento sono perciò influenzati da questa forma tradizionale e primordiale di scambio d’informazioni» sosteneva intervistato da liberal Cronauer.

E c’è un altro meccanismo di psicologia collettiva che spiega tanto sul nostro Paese, privo di riferimenti morali ed etici, sballotatto tra decaloghi per la sopravvivenza quotidiana e cattivi esempi. Parliamo del senso di comunanza sviluppato nei confronti dei nostri militari caduti.

«Basterebbe pensare all’emozione che suscitano certi eventi disgraziati e spiacevoli quando un nostro militare cade in azione – spiega il generale – l’intero Paese e coinvolto nell’emozione dell’evento».

Ma c’e di più e si è visto dopo la strage di Nassiriya. La morte è diventata per il disincantato popolo italiano l’unico momento di verità. Di fronte alle bare dei nostri soldati caduti non c’è menzogna.

«Sono momenti in cui si rinsaldano i valori d’unità e d’identità nazionale». Fino ad arrivare a episodi di spontanea condivisione. «Mi arrivano lettere di cordoglio da privati cittadini, dopo ogni perdita di vite umane. Fatto che da italiano mi riempie d’orgoglio».

Ma la comunicazione nel mondo dell’informazione globalizzata è un’arma potente per vincere i conflitti. «Tutto ciò che riporta un giornale nazionale viene poi ripreso e letto all‘estero. E’un’attività che svolgiamo, ma senza scopi operativi come avviene per le information operation, anche nei confronti dei media locali nei teatri dove ci troviamo ad operare. Invitiamo sempre i media locali alle nostre press conference».

Trasparenza che elimina anche la possibilità di disinformazione da parte di altri. «Assolutamente, infatti mentre in Italia per legge le attività informative e di comunicazione sono separate, in teatro operativo le due attività sono l’una in concorso dell’altra. Il fatto che si dica al cittadino afghano come sono andate esattamente le cose, toglie ossigeno a chi invece vorrebbe fare controinformazione». Insomma, la verità è sempre un’arma potentissima.

Pierre Chiartano, 5 luglio 2011

Fonte: Liberal

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