C’è sempre un momento nel quale ti assale il dubbio. Pensi ai figli, alla compagna rimasta a casa e ti chiedi: «Ne valeva la pena?». Mi è successo nella casermetta di Bassora nella quale la divisione Ammurabi della Guardia Repubblicana irachena mi aveva rinchiuso nel 1991, durante la rivolta degli sciiti, fra colpi di mortaio degli insorti che atterravano anche a pochi metri. E nel 2003, nel bel mezzo dell’invasione dell’Iraq, quando ero detenuto nell’hotel Palestine di Baghdad perché ero entrato a Bassora, come al solito illegalmente.

Allora il colpo del carro armato statunitense che sparava da un ponte sul Tigri centrò una stanza del quattordicesimo piano. Quella che dividevo con l’inviato del ‘Giornale’ Luciano Gulli era al tredicesimo, sotto la suite colpita. Morirono Josè Couso, un cameramen della Cinqo spagnola, e Taras Protsyuk, un operatore della Reuters. Tutti, io per primo, si chiedono perché si debba correre rischi così gravi. Non «è il mestiere bellezza», come sarebbe facile liquidare l’argomento. Nell’era del flusso continuo e travolgente delle informazioni, di internet, delle immagini catturate con i telefonini e postate subito su you tube, essere dove i fatti avvengono è essenziale. Per capire, per approfondire, per raccontare la storia stando dalla parte di chi la subisce, come teorizzava Domenico Quirico.

La tecnologia, grande opportunità, può diventare anche un handicap. In Siria, per esempio, c’è il fondato sospetto che il regime riesca a localizzare i telefoni satellitari. Questa capacità tecnica sarebbe stata fatale il 22 febbraio 2012 a Marie Colvin, inviata del Sunday Times, e al fotografo francese Remy Ochlik. A Homs erano in un centro stampa dei ribelli che fu colpito. Lì funzionava un apparecchio satellitare.

Per questa ragione entrando in Siria, il 6 aprile scorso, Quirico aveva avvisato che non si sarebbe fatto sentire per qualche giorno. In Siria, se ci si aggrega con gli insorti per più di poche ore, il mestiere torna ai primordi, all’epoca nella quale passavano giorni prima che l’inviato riuscisse a conquistare una linea telefonica, un telex o una postazione telegrafica. In certe condizioni il rischio è una necessità e non una scelta. A meno di non voler consegnare al silenzio le storie e le sofferenze di chi non ha voce.

Lorenzo Bianchi, 7 giugno 2013

Fonte: Quotidiano Nazionale

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