Cronisti, fotoreporter, semplici testimoni della realtà e delle contraddizioni sono diventati scomodi: la storia di Abouda è il segno duro lasciato da questa primavera fatta di tensioni, lotte, delusioni e speranze
Uno scatto, una pietra. Uno scatto, un respiro pesante. Uno scatto ancora che non può mai essere l’ultimo. Il sudore che cola dalla fronte e brucia quanto i lacrimogeni. Ma l’occhio è sempre incollato al mirino… nessuna visione periferica, nessun contatto con la realtà, se non quella che hai di fronte. Ogni tanto la vista si stacca dal’obiettivo per capire cosa stia succedendo intorno. Ma può essere tardi. L’istinto a volte non basta. È successo anche domenica 19 maggio nella città santa di Kairouan. Tutti lì a cercare di capire se il salafismo jihadista di Ansar al Sharia avrebbe rotto il cordone sanitario dei check point intorno alla capitale dell’islam tunisino. Se il diktat del governo di Tunisi sarebbe riuscito a piegare la volontà di quest’ala del’ortodossia radicale, impedendo che l’assemblea nazionale dei supporter della sharia avesse luogo.
Di fatto salafiti in città e intorno al’antica moschea di Uqb ibn Naafas, non se ne sono visti. In compenso i ragazzi della Medina, forse irritati per la forte presenza della polizia e delle Brigades d’intervention rapide o per lo show di Amina, la Femen tunisina, davanti alla moschea, avevano cominciato ad attaccare le forze del’ordine con una violenta sassaiola, durata diverse ore. E proprio pochi metri di fronte a Bab el Khouka, Abouda scattava raffiche di foto immortalando ragazzi a volto coperto e giovani frondolieri. Pochi secondi, qualche battuta aggressiva in arabo, uno spintone, un calcio e una ventina di casseur della medina avevano già trascinato il giovane fotografo contro il recinto di una scuola. Nel gruppo di giornalisti le macchine fotografiche erano scomparse come d’incanto. E il cameraman rimasto indietro si era giustamente smaterializzato. Incerti del mestiere in una domenica tunisina.
Dalla scuola – una palestra mi avevano spiegato poi – era uscito un prof, alto, jeans e camicia rossa a righe, brizzolato, forse conosceva ragazzi, forse qualcuno era un suo allievo. Si mette in mezzo parla con calma, la tensione cala magicamente, fa segno agli altri giornalisti di entrare oltre il cancello. La polizia sta contro-caricando, arrivano i lacrimogeni, si sentono spari di cal 12, i fucili a pompa. Meglio spostarsi.
Abouda è di Kairouan, fa il fotografo freelance. È sempre in prima linea, dove volano sassi, insulti, calci, gas e qualche proiettile. Inquadra e scatta, urla ai suoi giovani collaboratori come muoversi nelle fasi più cruciali di un evento. Ha una piccola squadra e gestisce una altrettanto piccola società che vende servizi, filmati e foto anche a qualche “firma” che poi si pavoneggia su copertine patinate. Magari di quelli che si tengono a debita distanza dagli scontri (a volte è consigliabile) e praticano l’arte del’articolo di gruppo, con altri colleghi. In maniera da non prendere, come si dice in gergo, “buchi”.
Così anche eventuali “sviste” vengono ripetute sulla maggior parte delle testate e diventano “verità”. Anche se da bravo professionista il fotoreporter tunisino rispetta la regola della discrezione e non fa nomi. La gloria è per il divo reporter, il “culo” lo rischia gente come Abouda. Anche durante la cosiddetta Primavera dei gelsomini in Tunisia ha lavorato e rischiato molto. E oggi ciò che succede in Siria a reporter, cameraman e giornalisti ha reso questo lavoro una delle tante attività a rischio. Sono 36 i colleghi deceduti negli ultimi due anni nel mezzo della rivolta siriana. E quelli scomparsi non si contano. Ricordiamo soltanto i due americani, Austin Tice e James Foley e i tanti giornalisti dei canali in lingua araba come Al Jazeera e Al Arabyia. Tanti che dal Qatar è arrivato anche un “prezziario”: 95mila dollari per ogni reporter consegnato alle milizie filogovernative. Nonostante la Tunisia in molte classifiche sulla libertà di stampa non si trovi in una posizione onorevole, possiamo testimoniare la vivacità dei media locali, grazie anche a una naturale combattività dei giornalisti tunisini. Cito un esempio. La Presse è un quotidiano in lingua francese abbastanza diffuso, di proprietà governativa. Dopo il change della rivoluzione, il nuovo governo aveva nominato, come suo diritto, un direttore. Ma con un passato nei servizi segreti. Giornalisti e comitato di redazione avevano subito alzato le barricate e dopo mesi di ostruzionismo e denunce, “quel” direttore ha dovuto togliere il disturbo, per fortuna.
Ora, la Tunisia non è un paese dove sia rischioso lavorare per media e informazione. Ma qualche segnale di cambiamento potrebbe avvenire. Colpire un giornalista potrebbe dare maggior risalto a un evento. Oppure è la semplice rabbia degli ultimi che si scatena contro uno dei tanti simboli della civiltà moderna a far scattare il meccanismo della violenza. Macchine fotografiche, telecamere, videofonini, tablet e tutto l’armamentario del nuovo “comunicatore” sono gli strumenti che possono fare di un evento una “realtà”. Nel bene e nel male. Allora la rabbia diventa premeditata e il bersaglio cercato. Ma è presto per dire che in Tunisia il clima sia cambiato. È “l’alfabeto delle cose” direbbero i poeti tunisini, in questa primavera di tensioni, lotte, delusioni e speranze. Dove raccontare i fatti può essere come scrivere in versi, senza struttura, senza sequenza, senza paura per la verità.
Pierre Chiartano, 30 maggio 2013
Fonte: succedeoggi.it